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Consigli di lettura contro il postmodernismo
 
Copertina di ''Imposture intellettuali'', di Alain Sokal.

[Saggio]

Recensioni di Giovanni Dall'Orto


Consigli di lettura contro il postmodernismo

Qualche giorno fa (12 dicembre 2021) ho ricevuto tramite il mio blog "A caccia di guai" una richiesta di consigli di lettura sul tema del postmodernismo, nel suo rapporto con (cioè, contro) la sinistra; Ho pensato che il tema possa interessare anche altre persone, e quindi pubblico anche qui la risposta:



Allora, caro X.

Copertina di Paragone degli ingegni

Dici che leggere di filosofia non è la passione preferita, quindi forse la confutazione filosofica di Paolo Rossi contenuta in Paragone degli ingegni moderni e postmoderni  non fa per te.
Diciamo comunque che è un ottimo libro, che però politicamente ha fatto un buco nell'acqua, lasciando il tempo che ha trovato, perché l'autore parla da filosofo ai filosofi, e
quindi la sua critica non è riuscita a uscire dall'àmbito accademico (dove al contrario ha avuto sufficiente riscontro da meritare la ristampa: la prima edizione era uscita addirittura già nel 1989).
Il libro è comunque pesantino, tanto che io non sono ancora riuscito a terminarlo, nonostante sia abbastanza smilzo. Però chi fosse una/o studente di filosofia si troverebbe una parte del lavoro di critica già svolto qui dentro.
Quindi questo è un buon testo per chi desiderasse un approccio critico accademico.


Copertina di Manifesto del nuovo realismo

Molto più utile, per i non filosofi come noi, è il lavoro di Maurizio Ferraris che, partito dal "pensiero debole" (ossia postmodernista) di Gianni Vattimo, è tornato al materialismo (lui lo chiama "nuovo realismo"... ma vabbè, per vendere cose vecchie quanto il mondo, aiuta sempre il ribattezzarle come "nuove").
Ferraris pubblica da anni (anche) libri
divulgativi nonché interventi sulla stampa non specialistica (devastanti quelli contro Heidegger, il nonno dei postmodernisti, sul fatto che la sua adesione al nazismo e il suo antisemitismo viscerale non furono opportunistici, bensì profondamente collegati alla sua visione filosofica del mondo).
Di sicuro penso che apprezzerai il suo Manifesto del nuovo realismo: io
l'ho trovato molto leggibile e semplice da capire (l'ho già consigliato più volte) e penso che non ti deluderà.
Ferraris, fondamentalmente, pur evitando asprezze polemiche, spiega in modo efficace perché l'approccio nominalista del postmodernismo abbia fallito nel dare una lettura coerente della realtà. Che non è solo "narrazione", ma ha una propria realtà (i filosofi la chiamerebbero "ontologica") preesistente a noi e ai nostri "discorsi" (molto divertente il "paradosso della ciabatta" con cui spiega il concetto).

Mi dicono che è buono anche Emergenza, però io non l'ho ancora letto, quindi te lo nomino solo per sentito dire.


Copertina di French theroy

Sulla "Theory" come fenomeno culturale è ottimo "French theory. Foucault, Derrida, Deleuze & Co. all’assalto dell’America" di François Cusset .
Cusset è francese e insegna negli Usa, quindi sta bene attento a non essere messo al bando dall'establisment universitario statunitense, procedendo coi piedi di piombo e muovendo una critica piuttosto garbata, quasi sottovoce. Tuttavia il succo del discorso, nel suo libro, c'è.

La sua tesi centrale è che la "French theory" (così è stato percepito/etichettato il postmodernismo negli Usa, da dove è poi traboccato sul resto del mondo) non ha nulla di "francese". Gli autori fondanti (che Cusset elenca ed esamina) saranno anche stati tali, ma ormai in Francia sono dimenticati, e se oggidì sono discussi è perché vi tornano di rimbalzo come autori americani(zzati), sull'onda dell'egemonia culturale americana, dato che la "French Theory" è in realtà americana quanto la torta di mele.

Cusset legge questa ideologia in modo interessante. Secondo lui si tratta della risposta che il mondo accademico delle humanities statunitensi ha al fenomeno delle università che hanno iniziato a sbarazzarsi della tradizionale cultura umanistica occidentale, giudicata ormai inutile nel mondo globalizzato, se non addirittura divisiva e dannosa ("dead white men").
Nella società globale del Pensiero Unico, i figli della classe più ricca e privilegiata affollano ormai le facoltà di business e giurisprudenza. La comprensione profonda della letteratura e dell'arte figurativa non è più lo status symbol che un secolo fa segnalava la superiorità sociale dei figli delle classi dominanti. In quanto "sapere inutile" tale conoscenza era infatti dimostrazione delle sovrabbondanti possibilità economiche di chi l'acquistava.

(Mia nota in margine: il concetto è molto vicino a quello di luxury beliefs ("credenze di lusso") di recente proposto per le idee postmoderne: manifestando la propria trepidanza per il destino di asessuali, agender, alexigender, e simili, si dimostra la propria ricchezza, grazie alla quale problemi volgary e da povery, come pagare l'affitto o le spese mediche, risultano irrilevanti.
Trattandosi di simboli di status sociale non è necessario che chi li compera
sia veramente ricco: c'è chi s'indebita per la vita per inutili lauree in Gender studies, che fra quindici anni, passata la moda, avranno lo stesso valore di lauree in frenologia o in mesmerismo.
Siamo di fronte insomma allo stesso fenomeno dell'adolescente nero che compra le Nike più costose pur non potendo davvero "permettersele", tanto che magari spaccia per poterlo fare: il suo è un desiderio di appartenenza allo status ostentato da chi indossa scarpe assurdamente costose. Ma sto divagando).

Secondo Cusset, i docenti di Lettere, privi ormai di un ruolo, si sono reinventati, abbracciando in massa il paradosso che stava al centro del postmodernismo: l'idea cioè che la realtà sia solo un testo, una narrazione, un discorso.
Perché se la realtà è un testo, allora le persone più adatte a capirla e spiegarla sono i critici letterari (cosa che in effetti sono tutti i più rilevanti teorici postmodernisti, queer inclusi, a iniziare da Judith Butler).
E dopo i primi timidi successi di questo approccio, limitato inizialmente ai campus più edgy, tutto quanto è diventato di colpo "narrazione".

Questo di Cusset è un testo meno militante e combattente di quello di Alain Sokal che nomini (peraltro ormai fuori commercio, almeno in lingua italiana) ma è importante per l'originale approccio sociologico, che mette in relazione una crisi di civiltà concreta, reale, e la nascita di un nuovo culto mirato a salvare il reddito del gruppo sociale degli intellettuali borghesi. È l'unico testo che abbia letto finora che si pone la domanda di quale sia la funzione sociale, l'utilità concreta, del postmodernismo nelle università.


Copertina di Cynical theories

Se poi leggi l'inglese, Sokal ha avuto validi emuli negli autori di una seconda beffa, in cui di nuovo saggi farlocchi sono stati sottoposti con successo a varie riviste postmoderniste (in un caso, addirittura infilandovi citazioni dal Mein Kampf di Hitler, che nessuno ha riconosciuto per tali).

Due delle tre persone che hanno architettato questa beffa hanno scritto Cynical theories: how universities made everything about race, gender, and identity - and why this harms everybody.
Il libro è scritto da due autori molto diversi fra loro, ed è quindi piuttosto ineguale.
Helen Pluckrose
, inglese, è una paciosa Illuminista vecchio stampo, fondamentalmente una scettica radicale, e come tale nemica dei dogmi sotto qualsiasi forma si presentino. La sua è una polemica a favore della razionalità, e della tolleranza della diversità di opinioni all'interno della società. Classica, ma assai godibile.
James Lindsey, statunitense, è invece un aggressivo Liberal pieno di certezze, che taglia e trancia con l'accetta, e identifica il postmodernismo con una roba chiamata "Marxismo culturale" (concetto inventato dall'estrema destra Usa!) che ha la bizzarra caratteristica d'essere anti-materialista ed anti-analisi dei rapporti di classe, e quindi profondamente anti-marxista... ma la contraddizione non lo turba minimamente: il colpevole è Marx, il resto è solo propaganda.
Quindi sebbene il libro sia davvero utile per lo smisurato lavoro di vaglio e sintesi che propone (gli autori hanno macinato per anni montagne di testi noiosi, noiosissimi, e illeggibili - in una parola, postmoderni - per darcene un comodissimo bigino), a tratti è sinceramente irritante, per il tono apodittico con cui alcuni capitoli (e non ho nessun dubbio su quale dei due autori li abbia scritti!) tranciano via questioni complesse, riducendole a formulette politico-polemiche.
A mio parere, il limite di questo denso lavoro, che ritengo comunque utile, è che ci sa dare un ottimo quadro di "cosa" stia succedendo, ma senza riuscire a spiegarci il "perché" stia succedendo. Dare la colpa al comblotto marxista andava bene nel 1951, oggi, a marxismo morto, fa solo ridere.
(Nota in margine: lo stesso limite di Lindsey ha pure la Internet-celebrity Jordan Peterson, che critica il postmodernismo da un'ottica premodernista/cristiana. Ragione per cui, pur dicendo anche cose giuste, e nonostante la sua cultura e la sua bravura retorica, alla fine si limita a dare un giudizio morale, anziché fornirci una spiegazione razionale del successo di questa religione atea).


Copertina di Material girls

Molto meglio, anche se limitato al solo tema dell'importanza della realtà materiale per il femminismo, è semmai l'ottimo libro di Kathleen Stock, Material girls: why reality matters for feminism.
Stock è una docente di filosofia, lesbica e femminista, e il libro le è costato le dimissioni dall'università in cui insegnava per la reazione che ha suscitato e le minacce che le ha scatenato contro (l'università, anziché difenderla, le ha "consigliato" di assumere una guardia del corpo per poter fare lezione!).
Quest'autrice ha un approccio molto logico-filosofico nel spiegare l'inconsistenza e l'autocontraddittorietà delle posizioni estreme del transattivismo postmodernista, tali da renderne impossibile l'applicazione pratica, ma si guarda bene dallo sposare le tesi del "femminsimo radicale" a cui accennavi tu. Come noi, Stock sa che un nome è solo un'etichetta (nomina non sunt essentia rerum), quindi si rifiuta di misgenderare le teoriche trans con cui polemizza. Per questo fatto è stata attaccata, dall'ala intransigente del "radical feminism", come povera sempliciotta che non capisce le "reali" radici del problema.
In realtà Stock è solo una persona che vuole fare il suo lavoro d'insegnante di filosofia, e se le manca la tempra
vulcanica esibita su Twitter dalla sua sanguigna collega Jane Clare Jones, non essere una Pasionaria nata per le barricate non è necessariamente un reato.

Copertina di Trans  Copertina di The end of gender  Copertina di Irreversible damage

Stock usa un tono didattico, ricco di esempi, e utilizza un linguaggio non specialistico.
Questo fa del suo libro un'opera di alta divulgazione, di agevole lettura, ma anche il più profondo fra tutti i libri scritti da femministe anglofone che io abbia letto fin qui. Ne ho letti diversi, come
Irreversibile damage: teenage girls and the transgender craze di Abigail Shrier; Trans: when ideology meets reality di Helen Joyce; The end of gender: debunking the myths about sex and identity in our society di Debrah Soh, e nessuno di essi mi ha detto cose che non sapessi già. (Anche se, a una persona giovane che affrontasse per la prima volta in vita sua tali argomenti, questi ultimi tre libri risulterebbero senz'altro nuovi ed utili).
Secondo me i tre ultimi libri appena citati sono fondamentalmente relazioni giornalistiche sul dibattito sviluppatosi negli anni passati, soprattutto online sui social media, mentre dietro al libro di Stock c'è un ragionamento, un metodo di pensiero. Questo è il motivo per cui lo preferisco e lo raccomando. Se si ha tempo per leggere uno solo fra questi libri, allora che sia quello di Stock.


Copertina di La piccola Principe

Ovviamente anche in Italia abbiamo avuto tentativi di dare una risposta lesbo-femminista all'attacco portato dal postmodernismo queer ai diritti di donne e persone omosessuali (che come saprai è il campo specifico in cui mi muovo io).

Essendo un maschio non seguo i testi del "femminismo radicale", ma fra tutti ho letto La piccola principe. Lettera aperta alle giovanissime su pubertà e transizione, di Daniela Danna, bel tentativo di sintesi delle ragioni del femminismo lesbico, che però ha avuto il "torto" di essere uscito troppo presto, quando ancora la semplice idea che si potesse obiettare alle tesi del transattivismo era motivo di linciaggio.
È quindi un libro che è stato più criticato e maledetto che letto, e al di fuori della cerchia per cui è stato scritto non lo si sente citare mai. Certo, non ha aiutato il tono spesso intransigente della Danna, ma ciò non toglie che le recensioni del mondo LGBTQIA++++ siano state per lo più negative, quando non condiscendenti: Danna sarebbe infatti un'ignorante che non capisce "davvero" la questione. Il che è sia ingeneroso che palesemente falso, viste le sue credenziali accademiche e la sua pluridecennale militanza femminista.


Copertina di Noi le lesbiche

Appena uscito è poi Noi le lesbiche. Preferenza femminile e critica al transfemminismo, un agevole pamphlet miscellaneo. Non l'ho ancora letto, ma ho assistito alla presentazione, trovando le curatrici attente, aggiornate sul dibattito online, coscienti dei termini della questione oggi.
Significativamente, alla presentazione erano presenti alcune matriarche del femminismo del secolo scorso, che hanno espresso la loro perplessità sul fatto che le autrici sentissero ancora il bisogno di sottolineare di essere lesbiche. "Che senso ha definirsi?", hanno chiesto le pythonissae. Che senso ha definirci in base al sesso delle persone che amiamo? Le perzone zono perzone, dopo tutto...
Ho trovato molto simbolica questa situazione, in cui le brave autrici si sono trovate a dover combattere su due fronti, da un lato una critica pre-moderna, ottocentesca, dall'altra una post-moderna, novecentesca, entrambe concordi nel negare il senso e la realtà dell'identità lesbica.
Forse qui si applica davvero il concetto
farlocco (tanto caro a Foucault) di episteme, nel senso di "visione del mondo inespressa", visto che tra premoderniste e postmodernisti esiste una straordinaria quanto inespressa concordanza nel negare realtà all'identità omosessuale in quanto tale.

In ogni caso questo libro avrà, come anche da intenzioni delle autrici, un interesse maggiore per le donne, in primis le donne lesbiche.



Copertina di Questo libro è gay

Inoltre in base al principio secondo cui è prudente leggere anche i testi del nemico, per tenerlo d'occhio, segnalo due fra le autrici più lunatiche del bazaar del transattivismo: Juno Dawson e Sally Hines.
Dawson, celebre per aver dichiarato che molti gay sono tali come "premio di consolazione" per il fatto di non poter essere donne, è l'orgogliosa autrice di due manuali per adolescenti: Questo libro è gay e Questo libro è trans. Il secondo non l'ho letto, ma il primo è un piccolo manuale dell'orrore che ridefinisce l'intera questione omosessuale come problema d'identità di genere. Dove sia la differenza tra questa posizione e quella di chi dice che i gay sono "mezzefemmine", nessuno è ancora riuscito a spiegarmelo.
E questo è quanto viene oggi insegnato alla giovane generazione di gay.
Terapia riparativa allo stato puro: meglio essere una "donna" (virgolette virgolette) eterosessuale, che un maschio froc... gay.


Copertina di Il genere è fluido?

Il secondo libro, Il genere è fluido?, è uscito quest'anno, e non ho avuto ancora il dispiacere di leggerlo, ma lo consiglio sulla sfiducia (vale anche in questo caso la regola d'oro del giornalismo, secondo cui ogni volta che un titolo finisce con un punto interrogativo, allora la risposta è "no").
Seguo infatti la Hines, professoressa di Gender Studies (come dire, fuffologia applicata), su Twitter, e riesce sempre a sorprendermi come autrice delle posizioni più inani, contraddittorie, infondate e incoerenti del mazzo, il che è tutto dire.

E certo che il "genere" è ovviamente fluido, essendo una costruzione sociale totalmente arbitraria, quindi basata sul nulla e (legittimamente) modificabile non solo a piacere ma anche a capriccio. Tuttavia alla prima riga della presentazione del volume ci viene rivelato che esso parla del "genere biologico", cioè non del genere bensì del sesso. Che fluido non è, e quindi solo porre la domanda infrange ogni record di stupidità. Specie se posta da una "professoressa di Gender studies", che a quanto pare non è neppure capace di distinguere fra sesso e genere.
Ho la speranza che anche questo libro possa svolgere l'utile opera di "colmare la misura" che la Hines svolge ogni giorno sui social media, producendo
instancabilmente oppositori del postmodernismo così come incarnato nel transattivismo queer, e nelle stupidaggini che lei scrive.

Certo, i tweets della Hines non arrivano ai livelli surreali, sconfinanti nella pazzia, di un Paul Preciado o di una Julia Serrano, ma il fatto che libri come quelli di Preciado, Hines e Dawson siano tradotti in italiano, mentre quello della Stock no, la dice lunga sulla presa che il postmodernismo ha ancora sul mondo intellettuale italiano.
Sono legittime scelte di mercato, per carità, ma ciò non toglie che siano scelte di mercato legittime e significative.



Copertina di Longevità di un'impostura

Per finire, Michel Foucault.


Fra le sempre più numerose opere che muovono critiche al Profeta della religione postmoderna, segnalo, di Jean-Marc Mandosio, Longevità di un’impostura: Michel Foucault, che ha il vantaggio di essere un pamphlet molto scorrevole e molto breve (si legge in poche ore). Mandosio descrive Foucault come un abile venditore di fumo che ha saputo vendere, grazie a un linguaggio brillante, luoghi comuni e contraddizioni per farsi un nome e crearsi un'aura d'intoccabilità.
Il limite del volumetto è però presto detto: il libro è del 2010 (anche se la traduzione italiana è stata aggiornata al 2017) ma praticamente nessuno ne ha mai sentito parlare, come peraltro di nessuna delle altre altre opere che hanno smontato da decenni, magari su basi epistemologiche e storiografiche coi contro-baffi, l'idiosincratico approccio metodologico di Foucault alla storia (se ti può interessare qui c'è un mio contributo in materia) e alla filosofia.

Il problema è che queste obiezioni non vengono mai discusse, non entrano mai nel dibattito, che ormai è tutto interno al foucaultianesimo. I libri magari esauriscono la tiratura, ma poi, morta lì, si continua come prima. Del resto neppure la beffa di Sokal ha minimamente impedito che le medesime pratiche continuassero indisturbate per altri venticinque anni.
Il foucaultianesimo non è infatti né una teoria né una filosofia: è un culto. Che come tale si può solo adottare e al limite reinterpretare o chiosare, ma in nessun caso criticare. Chiunque critichi il Profeta dall'esterno della Chiesa è palesemente al servizio del Maligno, chi lo critichi dall'interno è invece un eretico e ne va espluso tramite la Cancel culture.
In altre parole, i tentativi di smontarlo con soli argomenti filosofici (come già detto parlando di Rossi) sono destinati all'insuccesso quanto i tentativi di dimostrare su basi razionali che il cristianesimo o l'islamismo sono "sbagliati". Ciò è impossibile, perché non si tratta di tesi razionali, ma appunto di culti.

Ma ciò poco importa: a chi non ne fa parte non interessa nulla dell'imene della Madonna o dell'Imam Nascosto, importa solo che coloro a cui importano queste cose non impongano con la forza, la violenza e il ricatto leggi o prassi che puniscano o discriminino chi non dimostrasse sufficiente interesse o reverenza su questi "appassionanti" argomenti.
La stessa logica va quindi applicata nel caso in questione. Ossia, va preso atto del fatto che il problema non è solo culturale e filosofico, bensì anche politico, come in effetti pare stia finalmente diventando nel Regno Unito, dove sta nascendo un coordinamento politico e una mobilitazione dal basso contro la Santa Inqueerizione.
Serve un agire che sia anche politico (e come tale accessibile a tutti, e non solo agli autonominati intellettuali che pretendono di essere i soli "competenti" autorizzati a parlarne), per svelare come il postmodernismo sia un'espressione del Pensiero Unico e del neoliberismo. Certo, è un'espressione aromatizzata al gusto di sinistra, ma a parte l'aroma propone come sostanza la stessa tesi ("There is no alternative") che propongono tutte le altre versioni del pastone sfornato dal Pensiero Unico.

Che proprio per il fatto di essere Unico non ammette, e men che meno finanzia, varianti di pensiero diverse dalla propria. Quindi se le più esclusive e costose università, riservate ai figli del 5% più ricco del mondo, sono oggi covi del Postmodernismo, ciò non avviene certamente perché il proletariato insorto se n'è impadronito e le sta gestendo lui (magari grazie al "marxismo culturale").
La banale logica sggerisce che semmai sia più probabile l'opposto - e infatti non a caso la banale logica è oggetto di una guerra spietata da parte dei postmodernisti.
Il re è nudo, e non ama che lo si dica in giro.


Copertina di The last man takes LDS

In questo senso spero mi sarà utile un libro che non ho ancora letto ma che ho appena ordinato: The last man takes Lsd: Foucault and the end of revolution di Mitchell Dean, che secondo quanto promette la quarta di copertina discuterebbe di come il nostro "Eroe" sia arrivato ad "apprezzare le possibilità di autonomia offerte da una nuova forza sulla scena politica francese, che non era né di destra né di sinistra: il neoliberalismo". (Detta proprio così, papale papale).

Penso che fino a quando sarà vivo il "mito fondatore" del Foucault intellettuale di sinistra (palle, era un giscardiano!), gay militante (palle, era velato - tanto che Hervé Guibert lo ha chiamato: "L'amico che non mi ha salvato la vita" - anche se ovviamente tutti sapevano benissimo che era gay!), antisistema (palle, era membro del più esclusivo e potente club intellettuale del Sistema francese, il Collège de France!), anti-potere (palle, era un barone accademico fatto e finito!), non sarà possibile criticarlo da sinistra - come a suo tempo aveva saputo fare Sartre, e come nessuno oggi osa fare più.
Eppure, ci sarà stato un motivo se la Cia aveva salutato con interesse l'avvento del pensiero postmoderno, giudicandolo un importante alleato nella guerra contro il marxismo (quello vero, non quello "culturale").



Non pretendo che di queste cose discutano "La Repubblica" (non sono un cretino) o le bambine di Vendola o di Letta (non sono un illuso), ma se qualcuno ci tiene ancora a definirsi "di sinistra", fosse anche solo per capriccio, tali questioni non possono continuare a restare, dopo decenni, senza risposta.
Ignorarle non significa essere semplicemente "ignoranti", significa soprattutto essere complici e artefici della nullificazione del pensiero di sinistra e del desiderio di cambiare la realtà, attraverso l'onanismo di reinterpretarla senza costrutto attraverso "narrazioni" di "narrazioni", in una regressione all'infinito priva di qualsiasi utilità pratica. Alla lotta rivoluzionaria si sostituisce così il "gesto simbolico" rivoluzionario, la "performatività", che in quanto simbolo può tollerare all'infinito una realtà materiale totalmente reazionaria: dopo tutto, la realtà non esiste, e l'idea stessa di "realtà" è un costrutto sociale! Basta quindi cambiare le parole, e la realtà cambierà, senza bisogno di sprecare tempo ed energie in lotte materiali.

Tuttavia, una società in cui si ha sì la pancia vuota, ma che ci permette di scegliere fra 256 "generi", non è "una società di sinistra". È solo il circo Barnum dei pezzenti.


Grazie ancora per avermi scritto e a risentirci, spero.

Giovanni Dall'Orto

Post scriptum. Sempre se leggi l'inglese, esistono ormai online ben due riviste di cultura d'impostazione anti-postmodernista (e più genericamente anti-"Woke"): "Areo" e "Quilette". Vale la pena di sfogliare i loro siti.


 
 
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