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La violenza e i gay
[da "Babilonia" n. 88, aprile 1991, pp. 14-15]

di: Giovanni Dall'Orto

[Nota del 2003, per mancanza di tempo metto online questo brano senza provvedere ad aggiornarlo, senza correggerelo e senza creare link d'approfondimento].


"Due soli dei missili cruise lanciati contro Saddam Hussein costano la cifra che Ronald Reagan ha stanziato nel corso della sua intera presidenza per la prevenzione dell'Aids".
Questa dichiarazione del gruppo "Act Up" di New York (per quanto prenda a esempio Reagan, che è celebre per non aver stanziato fondi per prevenire l'Aids) può fornire una motivazione contro la guerra del Golfo a tutti i gay che sembrano non trovare motivi per opporsi alle guerre.

Questi gay a quanto pare sono molti. Non posso negare di essere stato sorpreso nello scoprire, all'inizio della guerra, quanto poco la cultura della nonviolenza sia penetrata nel movimento gay italiano. E non solo fra coloro che sono favorevoli alla guerra.

La sorpresa è tanto più grande in quanto il movimento gay si basa interamente nella sua tattica e nelle sue proposte sul pensiero nonviolento.

La mia sorpresa si è tramutata in rabbia quando ho scoperto, "grazie" alla guerra del Golfo, che l'idea che anche i gay hanno della nonviolenza è quella di un tipo di pensiero astratto molto bello da esibire in vetrina, ma assolutamente "irrealistico". Per la realtà occorre semmai (dicono) un'altra logica, quella della violenza e della guerra ("sgradevole" ma ahimè "necessaria").

Eh no! Delle due l'una: o l'uso della violenza è maggiormente risolutivo, è più efficace nel risolvere le controversie di quanto non sia l'azione nonviolenta, oppure lo è meno o al massimo è altrettanto efficace. Negli ultimi due casi, la sbronza guerrafondaia a cui stiamo assistendo è solo un tragico errore e un indice di idiozia. Nel primo caso, invece, è indice di idiozia la scelta dei gay di non fare uso della violenza.
E non serve nascondersi dietro l'affermazione secondo cui "in certi casi" la guerra è "necessaria" perché può risolvere controversie che l'azione nonviolenta non può risolvere. Se così stanno le cose, è logico che un movimento come il nostro debba usare "in certi casi" i metodi più efficaci, e non quelli meno efficaci, e cosiddetti "astratti" e "irrealistici" come quelli nonviolenti.
In effetti a questa conclusione era già arrivato qualche mese fa Larry Kramer, che in una dichiarazione che ha fatto scalpore negli Usa ha dichiarato: "L'arma della protesta civile è ormai spuntata. Ci stanno uccidendo fra l'indifferenza generale. È arrivato il momento della violenza e del terrorismo".
Chi è d'accordo alzi la mano.


Cos'è la nonviolenza
Esiste un tragico equivoco sulla nonviolenza, equivoco non dovuto al caso ma alla voluta disinformazione creata dai mezzi di comunicazione di massa, tutti in mano ai fautori della violenza (compresa l'"Unità", in mano a un fu-Pci che non ha mai avuto il coraggio di votare contro l'invio di truppe italiane nel Golfo).
L'equivoco consiste nello scambiare l'acquiescenza verso l'ingiustizia, che è tipica dei cristiani (tanto "siamo nati per soffrire"!) con la nonviolenza. Se qualcuno ti prende a sberle, porgi l'altra guancia...
Peccato che questa non sia nonviolenza bensì masochismo: non a caso questa interpretazione della nonviolenza crolla sempre miseramente alla prova dei fatti. Don Levi, direttore dell'"Osservatore romano", ha detto nei primi giorni di guerra a una trasmissione televisiva: "Come cristiani noi non possiamo che essere contro la guerra. Questo non significa che noi siamo pacifisti".
Ben detto: porgere l'altra guancia non è da pacifisti: è da stupidi. Non a caso Gesù, di fronte ai mercanti del Tempio, fece di tutto fuorché porgere l'altra guancia!
Di più: questa non è nonviolenza: questa è complicità. Che è quella cosa che hanno avuto i Paesi "alleati", per dieci anni, nei confronti di Saddam Hussein mentre massacrava i curdi, i comunisti e gli oppositori in genere. O verso Hitler fin tanto che è stato il "bastione contro il comunismo", salvo divenire un tiranno nel 1939, appena firmato un patto con Stalin: la rapidità con cui si passa dal patto Molotov-Ribbentrop alla seconda guerra mondiale è rivelatrice!

Questo è l'atteggiamento opposto a quello di coloro che oggi vengono beffeggiati perché "pacifisti" ma che già dieci anni fa si opponevano al commercio di armi, quelle armi che ora Saddam sta usando contro gli "alleati", dopo averle pagate col finanziamento del Kuwait e dell'Arabia Saudita!

No, la nonviolenza non è uno schizzinoso rifiuto dell'uso della forza anche se per fini di difesa, bensì l'uso della forza assoggettata ad un principio irrinunciabile, cioè che la vita umana è sacra. Vale a dire che la nonviolenza non è una rinuncia a difendersi, ma è una strategia di difesa che esclude l'assassinio e il ferimento di altri esseri umani.

La difesa nonviolenta ammette un uso della forza: quello contro le cose e le istituzioni. Se un nemico invade il mio Paese e io con il sabotaggio sistematico delle strutture e dell'organizzazione sociale glielo rendo inutilizzabile per i suoi fini militari, non si può dire che io sia uno che porge l'altra guancia. Ciononostante sono uno che ritiene che gli oggetti si possano ricostruire e sostituire, mentre gli esseri umani no.
Non a caso è su questa strategia che si basa (seppur contraddittoriamente) il piano di difesa di Paesi come la Svizzera e la Iugoslavia.

Per quanto ho appena detto, nonviolento non è colui che finge che l'oppressione non esista, e che chiude gli occhi di fronte al nemico che opprime e massacra il suo prossimo (come hanno fatto e continuano a fare i governi, oggi impegnati contro Saddam, con tutti i tiranni della Terra, inclusi i sovrani feudali d'Arabia). Nonviolento è colui che nel difendere sé e il suo prossimo contro un aggressore, non dimentica mai che anche il nemico è un essere umano.

Mi è facile rispettare i diritti umani dei miei nipotini o del mio ragazzo; molto più difficile rispettare il mio nemico. Ma è proprio per questo che è necessario ripetere che la vita è un diritto che gli esseri umani hanno in quanto esistono, non in quanto si "meritano" o meno di essere lasciati in vita. Ricordiamoci che erano i nazisti ad arrogarsi il diritto di decidere chi "meritasse" di restare in vita e chi no.

Se il sedicente "amante della pace" di qualsiasi tipo e colore riesce a giustificare la privazione dei diritti umani (a partire dal più importante: quello alla vita) del proprio nemico, come hanno fatto in Parlamento i radicali italiani, Rosa Filippini e i deputati della sinistra indipendente, con questo solo fatto dimostra di non fare capo ad un'ottica nonviolenta, perché anch'egli aderisce all'idea secondo cui, come ha detto Saddam Hussein, "i diritti umani vanno intesi in senso dinamico e non statico".
Il cosiddetto "pacifista" non può trattare i diritti umani come un concetto "dinamico". Per il "pacifista" l'inviolabilità dei diritti umani è un dogma che non può essere discusso. Punto e basta.
Da qui deriva la nostra "stupida" intransigenza nei confronti della "inevitabilità" della guerra, da qui deriva l'"irragionevolezza" di noi cosiddetti "pacifisti" di fronte all'"evidenza" del fatto che "nella presente situazione" i diritti umani (a partire dal diritto alla vita) degli iracheni vanno intesi in modo un tantino elastico. Da qui deriva il nostro cosiddetto "dogmatismo": se per noi il fatto che la vita umana è sacra costituisce un dogma, non si vede come potremmo discuterlo.


Realismo della nonviolenza
Inoltre, particolare ancora più importante, la nonviolenza non fa parte del mondo dell'utopia, dato che i princìpi della nonviolenza sono alla base dell'ideale stesso di "società" umana, e tutti noi ne esigiamo il rispetto. Ogni giorno.
A tal punto che persino nel corso dell'attuale guerra noi vediamo i giornalisti guerrafondai dare per scontato che è giusto e doveroso applicare i principi della nonviolenza, e nessun altro.
Farò un solo esempio: il caso dell'Olp e di Arafat. I giornalisti concordano sul fatto che la scelta di appoggiare la guerra di Saddam (non l'invasione del Kuwait, che l'Olp ha condannato) ha "screditato" l'Olp. Il ministro israeliano David Levy ha dichiarato che con questa scelta "l'Olp si è messo fuori gioco".
L'appoggio alla guerra,  dicono unanimi i giornalisti, ha "sprecato" in un giorno solo tutta la "credibilità" conquistata dai palestinesi nel corso dell'Intifada (che è, giova ricordarlo, una lotta quasi interamente nonviolenta).
Quando Arafat si difende dicendo che è quarant'anni che l'Occidente promette una patria ai palestinesi, e che la pazienza umana ha un limite, gli si ribatte che questa non è comunque una buona ragione per ricorrere alla violenza e ad appoggiare l'uso della violenza per risolvere la questione palestinese.
Il che è proprio, guarda caso, quello che noi cosiddetti "pacifisti" diciamo nel caso dell'Iraq. Come si vede, anche i guerrafondai finiscono per darci ragione. Il che dimostra che non siamo noi cosiddetti "pacifisti" ad essere "fuori dalla realtà": sono i guerrafondai a non essere pienamente in possesso delle proprie facoltà mentali.
Perché delle due l'uno: o è lecito usare le armi per risolvere annose ingiustizie (ma allora è lecito il terrorismo da parte dell'Olp) oppure non lo è (ma allora non è lecita la guerra contro Saddam Hussein).

No, la violenza non paga. Le controversie vanno risolte con metodi che escludano l'assassinio legalizzato. Metodi che funzionano.
Il tiranno Saddam Hussein andava fiaccato proseguendo l'embargo che, solo oggi ci vien detto, stava avendo successo. Il 5 febbraio la televisione ha rivelato che un quarto dei soldati iracheni catturati soffre di denutrizione. Sui giornali è apparsa la notizia che le reclute devono portarsi in caserma le loro provviste perché manca il cibo.
A questa situazione siamo arrivati dopo soli sei mesi di embargo, contro i dodici che erano giudicati necessari. Io chiedo: se i guerrafondai riconoscono ormai apertamente questi dati di fatto sull'efficacia di sei mesi di embargo, era lecito attendersi che dodici mesi di embargo avrebbero avuto successo (e senza massacrare diecimila vite umane).
Esattamente come ha avuto successo l'embargo contro il Sudafrica in cui finalmente, ci assicurano i giornali borghesi, la minoranza bianca è scesa a miti consigli e senza che la maggioranza negra abbia fatto uso della violenza.
Esattamente come ha avuto successo quello contro il Nicaragua, dove la caduta del governo sandinista non è avvenuta attraverso la guerriglia, che ha fallito completamente i suoi obiettivi, ma attraverso la mancanza di beni di consumo, la perdita di potere d'acquisto dei salari, la mancanza di sviluppo economico, il continuo vivere in una economia di assedio.
E si noti che si trattava di un governo, secondo il giudizio degli stessi giornali che oggi fanno propaganda alla guerra, "tirannico" e "dittatoriale", il che dimostra allora che la lotta nonviolenta funziona contro i governi dittatoriali, quale è senza ombra di dubbio quello di Saddam Hussein.


L'obbedienza non è una virtù
Ho detto che il nonviolento non è colui che di fronte all'ingiustizia finge che nulla stia succedendo. Nonviolento è colui che combatte l'ingiustizia ma non con l'assassinio legalizzato bensì con lo sciopero (arma nonviolenta per eccellenza!), la disobbedienza, il sabotaggio, la diserzione.
In questi giorni i socialisti ci hanno detto, per "dimostrare" che esistono "guerre giuste" (sic!) che tale fu per esempio la Resistenza. Dimenticando che se oggi ricordiamo la Resistenza non è per i suoi successi militari: la guerra la vinsero altri. Ad esempio Josif Stalin, un democratico davvero di spicco, il cui trionfo militare ha reso certo più "giusta" quella guerra.
Quanto contò l'apporto strettamente militare della Resistenza è del resto mostrato dagli sforzi compiuti dal generale Alexander per disarmare i partigiani italiani...

No, se la nostra Repubblica è "nata dalla Resistenza" ciò si deve al fatto che in primo luogo essa fu tutto ciò che oggi i socialisti odiano: fu la diserzione da un esercito legittimo e da una "guerra giusta" combattuta per "difendere la Patria" contro un nemico "affamatore ed arrogante".
Fu la scoperta del fatto che si può e si deve disobbedire quando la coscienza ce lo impone. Come ha stabilito anche il processo di Norimberga.
La disobbedienza paga. Quasi l'intera comunità ebraica danese fu salvata dall'Olocausto nazista per mezzo del rifiuto nonviolento di obbedire. Al contrario le comunità ebraiche di popoli in armi contro il nazismo furono annientate. E, tragedia nella tragedia, molte autorità ebraiche collaborarono con il nazismo nella vana speranza di salvare qualcosa. Meglio sarebbe stato se avessero disobbedito e sabotato fin dal primo istante.
Nulla è più inumano e incomprensibile per me, nella storia dell'Olocausto, delle vittime che scavavano la fossa in cui sapevano che sarebbero state seppellite. Perché lo hanno fatto, mi chiedo? Cosa avrebbero perso rifiutandosi di farlo? A cosa è servito loro coltivare il culto dell'obbedienza fino a quel punto?
E che dire di noi omosessuali che come loro siamo sempre pronti ad aiutare ogni potere che schiaccia e opprime i "diversi",  i "dissidenti"? Scaveremo anche noi la nostra fossa con le nostre mani?


Uno strumento indifferente
Parlando del Nicaragua ho utilizzato di proposito un caso in cui la nonviolenza è stata usata per fini contrari a quello che il "senso comune" delle sinistre giudica essere "la giustizia".
L'ho fatto perché questo caso ci ammonisce: la lotta nonviolenta è comunque una forma di lotta, cioè un tipo di uso della forza, e come qualsiasi uso della forza può essere piegato a fini ingiusti.
La caduta del governo di Salvador Allende in Cile, che ha portato anni di sciagura al popolo cileno, è stata preparata da un'azione squisitamente nonviolenta come lo sciopero generale dei camionisti e da quello delle casalinghe cilene.
Ciò che rende più "giusta" la lotta nonviolenta non è quindi una qualità intrinseca, ma solo la sua possibilità di essere compatibile, a differenza di quanto avviene con la lotta violenta, con il principio fondamentale di qualsiasi società umana, che è la sacralità della vita umana.
Per dirla in altre parole, ritengo "superiore" una risposta nonviolenta non per il fatto che essa non permetta abusi e sopraffazioni (li permette), ma perché persino quando è usata per commettere ingiustizie, garantisce il rispetto di certi diritti umani.
Dunque la non violenza non costituisce di per sé la giustizia: è solo uno strumento di giustizia. La "indifferenza" etica dell'arma di lotta nonviolenta costituisce comunque una garanzia della sua efficacia. Il fatto che i padroni dei più grandi eserciti della Terra ricorrano anch'essi alla nonviolenza per i loro atti di ingiustizia, è la prova che la lotta nonviolenta funziona.
Se poi costoro usano anche la violenza, ciò avviene perché la violenza permette una quantità di ingiustizia infinitamente maggiore di quella che si può imporre con la nonviolenza.
Lo sciopero dei camionisti può fare cadere un governo, ma non può assassinare gli avversari politici e ridurre in schiavitù una nazione. La guerra sì.
E chi preferisce la guerra per risolvere la controversie internazionali (qualsiasi tipo di controversia internazionale, quella con l'Iraq inclusa) lo fa esattamente per questa ragione.
Si voleva radere al suolo l'Iraq per impedirgli di essere una "potenza regionale": questo è stato il motivo per cui ogni possibile sbocco della crisi del Kuwait che non prevedesse la guerra è stato scartato. Un embargo internazionale non avrebbe permesso di ridurre a un cumulo di rovine l'Iraq.
Da questo punto di vista la guerra era davvero "inevitabile".


La nonviolenza è la sola forma di realismo
Il fatto che l'Iraq abbia combattuto con  le armi e il denaro fornitegli da coloro che gli hanno mosso guerra, mostra in modo inequivocabile come il mantenimento della pace attraverso la preparazione della guerra (si vis pacem, para bellum) sia utopico e irrealistico, e appartenga solo al mondo dei sogni.
Il Kuwait ha creduto a questa logica, ed ha pagato cara, molto cara, l'illusione che le armi possano portare pace e giustizia.
Le paci si fanno nonostante le guerre, non grazie alle guerre. Chi perde non accetta le condizioni di pace: le subisce. Riproponendosi, non appena possibile, di cambiare le carte in tavola. Ecco perché ogni guerra scoppia sempre nella speranza di risolvere gli strascichi lasciati in piedi dalla guerra precedente.
Questo fenomeno storico di chiama "revanscismo" cioè, in termini terra terra: "desiderio di avere la rivincita".
Non sono un indovino, ma sono in grado come tutti di predire che l'Occidente vincerà senza alcun dubbio questa guerra, ma poi perderà la pace, perché dopo la guerra avrà di fronte un mondo arabo sempre più in subbuglio e desideroso di vendicarsi.
Questo non avverrà perché noi siamo "cattivi" e gli arabi siano "buoni". No di certo: avverrà perché una volta di più abbiamo ceduto all'illusione che sia possibile ottenere giustizia attraverso la violenza. I "buoni" (in quanto "vittime") palestinesi, sono da quarant'anni senza patria e senza pace anche  perché gli  arabi avevano creduto di poter risolvere il problema della presenza ebraica in Palestina attraverso l'uso della violenza.
Meglio di altri, il loro caso mostra chiaramente che la logica della guerra apre ferite che non riescono più a rimarginarsi, e che scatenano a ripetizione una guerra dopo l'altra.


La nostra lotta nonviolenta
Tutto questo, mi dirà qualcuno, è molto carino, ma noi gay cosa c'entriamo?
C'entriamo sì. Perché siamo un gruppo minoritario (che quindi non può contare di imporre le proprie richieste ottenendo la maggioranza dei voti al Parlamento). Perché allora non proviamo a farci rispettare attraverso l'uso della violenza?
In fondo, anche se oggi molti fingono di dimenticarlo, pochi anni fa tutta Italia fu scossa dal dibattito sulla liceità dell'uso della violenza per fini "giusti" e "inevitabili".
"Di fronte all'impossibilità di cambiare una società marcia, e di fronte all'aggressione di trame segrete e servizi segreti deviati che mettono le bombe e assassinano la gente", si chiesero alcune persone, "è lecito prendere in mano le armi e condurre la "inevitabile" guerra contro uno Stato ingiusto?".
Purtroppo ci fu chi rispose "sì" a questa domanda: fu così che nacquero realtà come le "Brigate rosse", che hanno scatenato uno dei periodi più bui della storia italiana. Abbandonando la fase in cui la lotta nonviolenta (lo sciopero la controinformazione e la disobbedienza) aveva ottenuto molti risultati.
Ebbene, l'"inevitabile" ricorso alla violenza per realizzare la giustizia, non solo non conseguì il risultato prefisso, ma causò la peggiore catastrofe della sinistra italiana nel dopoguerra.
Il che dimostra una volta di più, io credo, che dall'uso della violenza, "evitabile" o "inevitabile", non può nascere mai la giustizia, per quanto sublime sia l'ideale che lo giustifica.
Questa è la principale ragione per essere nemici della logica della violenza, e credo che da solo dovrebbe bastare.
Esistono però anche altri motivi per essere contro la logica della guerra che ci riguardano in quanto gay.
Il primo è che le guerre favoriscono la mentalità per cui tutti possono essere solo o bianchi o neri, cioè o amici oppure "nemici". E non occorre molta fantasia per capire da che parte tendiamo a trovarci noi gay in queste situazioni.
Un gruppo tendenzialmente malvisto in tempo di pace tende a diventare decisamente nemico in tempo di guerra. In tempo di guerra la "diversità" è infatti il marchio del "nemico".
Il secondo motivo è che gli omosessuali, in quanto individui potenzialmente ricattabili dal "nemico", sono visti come un "rischio per la sicurezza del Paese". La grande "caccia alle streghe" del maccartismo in America, si basò proprio sulla presunta "inaffidabilità" di un lavoratore omosessuale in quanto security risk.
Il terzo motivo è che la guerra è una "necessità" che mette in secondo piano qualsiasi altra necessità. Dopo questa guerra lo Stato italiano aumenterà le spese militari, il che significa che ci saranno meno risorse per altri problemi.
In questo contesto, l'Aids a quale punto della scala delle priorità finirà? E i problemi dei gay importeranno qualcosa a qualcuno? Io non credo che mentre la gente muore in guerra i diritti civili dei gay importeranno a chicchessia.
Il quarto motivo è che il clima di guerra rimette in sella i rottami del più vieto e fascistico maschilismo. Quelli che i coglioni ce li hanno quadri, e simili. Tutta gente che, lo sappiamo, odia i gay ed ha bisogno di usarli come simbolo di tutto ciò che è detestabile: "siamo uomini o froci"? Dubito che l'atmosfera che si respirerà nei nostri confronti migliorerà.
Già il guerrafondaio Forattini ha proposto una squallida vignetta in cui Saddam "lo mette in culo" a Begin. E questo è solo un assaggio di quel che ci aspetta.
L'ultimo motivo è che nel momento in cui il rispetto del diritto è affidato alla forza bruta, in cui vacilla le "certezza del diritto", i gay non possono più contare su nulla.
A che pro chiedere leggi a favore dei gay a uno Stato che scavalca la Costituzione senza suscitare altro se non sbiadite protestine di quattro gatti?
Cosa varrebbero queste leggi pro-gay, in uno Stato in cui le leggi sono carta straccia? Per essere garantiti nei nostri diritti noi gay abbiamo bisogno di una società in cui la ragione e il buon senso prevalgano, e nella quale non sia la forza a dettar legge (a torto o ragione poco importa).


Conclusione
Cari amici e cari compagni, spero che l'ubriacatura guerrafondaia che ci attornia svanisca presto (anche se temo che non sarà così) e che la guerra mostri il suo vero, disgustoso volto.
Mi ripugna vedere quanto in basso siamo arrivati, quando leggo un titolo sul "Corriere della Sera" del 4/2/1991 che dice: "Uccidere è un'arte che non ammette compassione". Un'arte!
Io credo che se la gente si abituerà, grazie anche ai padroni dei mass-media (è grazie al monopolio assoluto dell'informazione che i guerrafondai stanno vincendo) a stimare tanto poco la vita umana, neanche le nostre vite di "froci" varranno più molto.
Per questo mi fa molta paura l'indifferenza che noto nella generazione più giovane di gay. Una generazione che in gran parte ha fatto della carriera e del denaro il solo "valore" della propria vita.
Con sorpresa sento questi diciottenni gay giustificare la guerra perché necessaria a mantenere il nostro benessere economico, senza nemmeno preoccuparsi di trovare pretesti che nobilitino in qualche modo le loro parole.
Sono quelli della mia generazione che hanno bisogno di motivi etici per condannare o per giustificare la guerra: per questi ragazzi il fatto che sia economicamente giustificata è già un motivo sufficiente.
Con fastidio mi accorgo pure del fatto che questi ragazzi sono favorevoli alla guerra a patto che siano altri a combatterla, e che in generale sono così su tutto: abituati a stare con mammà fino ai 26 o 30 anni, si aspettano che siano gli altri a farsi carico dei loro problemi. Compresi quelli che hanno come gay.
Leghe e Cobas di tutti i colori ci promettono un futuro sempre più egoista e sempre meno solidale. Nel quale, cioè, ci sarà sempre meno posto per la nostre "diversità" e per la nostra richiesta di solidarietà di una parte almeno dei "normali".
Io non so se sono utopico nel mio ostinarmi a credere nel bisogno della solidarietà, nell'eguale "diritto al perseguimento della felicità" per tutti gli esseri umani. Certo mi deprime immensamente sentire i discorsi che si fanno attorno a me in queste settimane, accorgermi che i gay sono tanto razzisti e violenti quanto coloro che li perseguitano. Mi fa male toccare con mano quanto noi non siamo moralmente migliori dei peggiori picchiatori fascisti e anti-gay contro cui combatto.
So che ci aspetta un periodo buio, in cui ci sembrerà che il peggio non abbia mai una fine, e nel quale potrebbe attenderci (gli dèi non lo vogliano!) una guerra "in casa nostra". Ma so pure che è fin troppo facile essere "progressisti" quando esserlo è di moda, fa chic e non costa nulla. Tutto il contrario di adesso.
Vi chiedo allora di farvi sentire, nelle prossime riunioni dell'Arci gay, affinché l'impegno della nostra associazione a favore di una cultura della pace sia più netto, e perché non ci sia più posto per i machiavellismi di chi in pubblico è contro la guerra e in privato la ritiene "necessaria".

I miei saluti frocissimi:
Giovanni Dall'Orto
(presidente Arci gay Milano, redattore mensile gay "Babilonia")

Nota: questo scritto è firmato a titolo personale e non a nome dell'Arci gay di Milano.
 
 
 
sto cella parziale (il testo ci gira attorno
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Tratto da: ______. Ripubblicazione consentita previo permesso dell'autore: scrivere per accordi.

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