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Fra outing e coming out.
[Intervista a Michelangelo Signorile].

[Da "Babilonia", ottobre o novembre 1997. Questo è il testo integrale, precedente i tagli editoriali]

di: Giovanni Dall'Orto.
 

Michelangelo Signorile nel 2008. Foto di David Shankbone, WikiCommons.
 

Nato 36 anni fa da genitori pugliesi, il giornalista e scrittore statunitense Michelangelo Signorile è celebre (e noto anche in Italia) per le polemiche scatenate dai suoi articoli e dai suoi libri (fra i quali Queer in America, Outing yourself, e Life outside). Incontrarlo in occasione d'un suo viaggio in Italia per un reportage destinato al mensile gay statunitense "Out", per cui lavora, era dunque l'occasione buona per aspettarsi l'apparizione del diavolo mangiafinocchi.
Ebbene, tutto il contrario: di persona Signorile è un uomo assai comunicativo, dal modo di parlare e di ragionare pacato, per nulla passionale. Il fatto poi che sia anche assai attraente (sangue pugliese non mente!) rende ancora più vero il detto secondo cui il diavolo non è brutto come lo si dipinge...
Questa è l'intervista che ci ha concesso.


Tu in Italia sei conosciuto come l'inventore dell'outing, la rivelazione pubblica dell'omosessualità di celebri omosessuali omofobi.
Guarda, la stampa sull'outing ha detto quello che ha voluto, insistendo sul fatto che era una cosa che poteva accadere a chiunque, magari a un povero e innocente gay "velato" qualsiasi, mentre si è trattato di un'iniziativa che riguardava esclusivamente quei personaggi pubblici gay che avevano già rinunciato al diritto ad avere una vita privata in cambio di potere e denaro.

Dissezionare le vite private dei personaggi pubblici, specie per quel che riguarda le questioni importanti, è una tipica tradizione americana. In America abbiamo, rispetto a voi, una diversa concezione della privacy delle figure pubbliche, e l'outing è iniziata per una questione di giornalismo, perché ci siamo detti che i mass-media dovevano iniziare a trattare nello stesso modo le figure pubbliche omosessuali e quelle eterosessuali, sia che si trattasse di musicisti, attori o uomini politici.
I mass-media americani mettono in piazza il minimo dettaglio privato di qualsiasi personaggio famoso; eppure quando si arrivava al tema dell'omosessualità si diceva sempre: "No no, questo non si può scrivere: è privato".
Ciò non aveva nulla a che fare con la privacy bensì con l'omofobia, il rifiuto di presentare l'omosessuale in una luce favorevole (come nel caso di un personaggio celebre) dato che ai mass-media americani non frega assolutamente nulla della privacy dei personaggi eterosessuali.

Io ho fatto parte di vari gruppi politici gay, come "Act-Up" o "Queer Nation", e non posso quindi pretendere che l'outing non avesse per me una valenza anche politica; tuttavia per me è stato soprattutto un modo per cambiare il giornalismo. A mio parere non avrebbe dovuto essere chiamato outing bensì equalising ("parificazione", NdR); purtroppo però un celebre giornalista gay "velato" coniò immediatamente questa parola, presentando il fatto come un atto di violenza o di stupro morale e non come un atto di eguaglianza, ed ha preso piede la sua definizione, non la mia.

Mi fai un esempio di "equalising" o "outing", che dir si voglia?
Per esempio ho parlato di Pete Williams, portavoce del Ministero della Difesa, che era gay, cosa che tutti sapevano sia a Washington sia alla Casa Bianca, e che ciononostante difendeva pubblicamente il bando contro la presenza di gay nell'esercito, sostenendo che gli omosessuali sono un security risk ("rischio per la Sicurezza Nazionale").
Quando scrissi l'articolo su di lui mi si disse che avevo fatto malissimo, perché sarebbero successe cose tremende a Williams, che invece ha continuato ad avere una carriera di successo anche dopo l'outing. In realtà la sola conseguenza fu che l'argomento del security risk fu finalmente abbandonato: se ci si poteva fidare di lui, perché non lo si poteva fare con altri omosessuali?
Tutti coloro che sono stati outed da me hanno continuato la loro carriera, comprese le star del cinema.

Magari oggi ti sono anche grati...
No, questo no. Anzi, il produttore cinematografico David Geffen dice che l'ho fatto solo perché ero invidioso di lui e avrei voluto appartenere alla sua cerchia sociale di miliardari, ma non potevo permettermelo. E allora, dice lui, mi sono vendicato così...

A chi altri hai fatto l'outing?
Ho parlato molto di Hollywood, che è un ambiente molto simile a quello che mi si dice esserci in Italia: esiste da parte dei gay una pressione tremenda per impedire che altri gay dichiarino la propria omosessualità, perché quando una persona è dichiarata appare come una specie di rimprovero vivente a tutti coloro che non lo sono.
Inoltre i produttori gay non vogliono che gli attori dicano d'essere omosessuali perché temono che la cosa abbia ripercussioni sul botteghino.
Dopo l'outing, però, tutti questi personaggi sono ormai "dichiarati" e non devono più fingere, e ci sono sempre più attori dichiarati; alcuni di questi produttori, come appunto David Geffen, hanno anche dato contributi, nell'ordine di miliardi di lire, alla lotta contro l'Aids, cosa che prima non facevano per paura di "esporsi" in questo modo.


Senti, come americano qual è la cosa che ti colpisce più negativamente dell'Italia?
In Italia sono venuto più volte in vacanza e mi sono trovato di fronte ad una cultura molto diversa; poi però tornandoci per lavoro, parlando con la gente, è stato diverso: mi sono reso conto di aspetti che non avevo notato prima. È stata un'esperienza rivelatrice.

E adesso che mi hai dato la risposta politically correct, puoi dirmi per davvero cosa non ti è piaciuto. Senza offesa.
(Ride). Mah... Sono stato colpito da quanto potere abbiano la famiglia e la Chiesa cattolica. Pensavo ingenuamente che il capitalismo eliminasse le differenze nei vari Paesi, come uno schiacciasassi. Invece mi sono reso conto del fatto che il capitalismo può fiorire in realtà del tutto diverse, dall'Italia a Singapore alla Cina, lasciandole immutate.
La famiglia italiana è una realtà che ha un tale potere che perfino in America le famiglie di origine italiana, come la mia, sono fra le meno mobili della nazione. Gli italo-americani sono i più stanziali, per poter stare vicini ai figli, e fra loro si trova il più basso numero di persone che appartengono a professioni che richiedono di spostarsi molto; per esempio ci sono pochissimi politici italo-americani, nonostante fra i bianchi americani siano la più grande minoranza, anche perché non amano rappresentare tutti quanti: preferiscono rappresentare solo la loro famiglia.
Tutti i gay appartenenti a gruppi etnici di religione cattolica, negli Usa, hanno maggiori difficoltà ad "uscire fuori", e fra i gruppi etnici cattolici quelli latini hanno maggiori difficoltà di quelli non latini (come gli irlandesi).
Il cattolicesimo è molto imperniato sulla famiglia.

E invece quale, fra gli innumerevoli motivi per trovare indubbiamente favolosi noi italiani, ti ha colpito di più?
(Ride). Non saprei cosa mi sia piaciuto di più. Tutto quello che posso dire  è che la comunità gay italiana è infinitamente più omogenea, meno frammentata di quella americana. Nel movimento gay americano abbiamo incredibili differenze di razza, classe, religione, cultura, e ciò ci tiene molto divisi: non abbiamo un solo movimento gay, ne abbiamo molti.
Negli Usa, l'esperienza di un gay bianco  e di uno nero possono non avere nulla in comune.
La maggiore omogeneità del mondo gay italiano, se può essere uno svantaggio perché spinge al conformismo, al tempo stesso può essere un vantaggio, perché rende la vostra comunità meno frammentata.


Tu hai scritto ben due libri sul coming out: Outing yourself e Life outside. Prova a dirmi in breve perché mai secondo te una persona gay dovrebbe dichiarare la propria omosessualità.
La cosa per me più importante (ma mi rendo che può cambiare da cultura a cultura) è la questione della stima in te stesso, di te come individuo. Farlo per motivi politici è OK, ma la prima cosa che conta nel coming out è l'onestà verso te stesso.
Vivere in un'eterna bugia fa un danno enorme: infatti ti poni al di sotto delle altre persone (in famiglia, al lavoro, ovunque) ed accetti di subire molte ingiustizie. Eppure un sacco di cose importanti della tua vita, compresa la capacità di fare un buon lavoro, sono condizionate dalla tua stima di te.
Essere "velato" causa danni di cui non ti rendi conto finché non decidi di uscir fuori e non ti volti indietro e vedi quanto pesante fosse il costo del nasconderti.

Molte persone omosessuali dicono di vivere bene anche senza fare il coming out.
Quando intervisto personaggi gay "velati" mi accorgo che comunque si trovano in situazioni in cui devono mentire, fare compromessi. Anche se dicono che va tutto bene, se analizzi la loro vita vedi che fanno un sacco di compromessi.
Rifiutare di parlarne significa mettere in moto una situazione in cui in futuro saranno costretti comunque a compromessi: non portare a casa il ragazzo mentre la sorella eterosessuale lo può fare, veder rifiutare l'idea che la propria sia una "vera" relazione affettiva eccetera.
Inoltre ciò sicuramente impedisce agli uomini (non saprei dire se ciò accada anche per le lesbiche) di avere relazioni durevoli, perché avere una relazione e nasconderla rende tutto maledettamente più complicato, per cui si è costretti ad accontentarsi di rapporti sessuali casuali.

Eppure sono molti in Italia a dire che non vedono perché devono sentirsi parte di una comunità gay solo perché vanno a letto con certe persone.
Mi pare sciocco: amare, vivere la propria sessualità, sono cose di enorme importanza nella vita umana. Inoltre noi uomini omosessuali abbiamo una cultura che è nata attorno alla sessualità, però siccome siamo dei paria (per la legge, la famiglia, la religione) spesso ci siamo sforzati di creare qualcosa in altre aree, cerchiamo di aprire nuovi territori. Credo che noi siamo per la società un margine creativo e che questa sia una esperienza che ci tiene insieme al di là della sessualità.

Certo che, però, se dovessimo stare insieme fra omosessuali solo per l'aspetto commerciale e superficiale, avrebbero ragione coloro che non vogliono essere coinvolti nella comunità gay, che loro chiamano con disprezzo "ghetto". In realtà, invece, si tratta di stare assieme ad altre persone con cui condividiamo aspetti importanti della nostra vita: l'amore è importante, la sessualità è importante.
Forse il problema vero è che molti omosessuali percepiscono questo mondo gay come troppo "politico" mentre loro non vogliono avere a che fare in nessun modo con la politica.

Devo aggiungere poi che credo che in Italia sia più difficile darsi una ragione per "uscir fuori", dato che qui non ci sono, come negli Usa, leggi che ti definiscono e ti condannano come omosessuale anche se tu non ti consideri tale. Qui non c'è l'urgenza di lottare contro queste leggi, che riguardano chiunque, anche i meno politicizzati. Qui in Italia uscir fuori è solo una maturazione personale, filosofica, non è la reazione istintiva di difesa contro una minaccia esterna.
Da noi anche se si stava tranquilli era il governo a venire a snidarti nella tua casa; invece qui in Italia, dove la polizia non mette piede nella camera da letto, la tentazione di tenere un basso profilo è più forte.


A proposito di governo. Tu sei stato e sei al centro d'una grossa polemica per aver sostenuto che lo Stato dovrebbe controllare e se necessario chiudere le saune gay e i sex-clubs per combattere l'Aids. Come si concilia ciò con quanto hai appena detto?
Credo che lo Stato debba stare fuori dalla nostra sessualità, ma credo che il governo debba anche regolare le grandi questioni sociali, come lo sfruttamento della stupidità della gente o la necessità di impedirle di farsi del male. Abbiamo un problema: l'Aids. Il 50% dei gay delle grandi città americane è infettato dall'Hiv; nelle piccole lo è il 20%. Il "sesso sicuro" non ha funzionato: i gay delle generazioni più giovani si infettano al ritmo del 2-3% annuo, il che vuol dire che entro i 40 anni cumulativamente saranno anche loro al 50% di sieropositivi, esattamente come la generazione che non ha praticato il "sesso sicuro".
Per questo voglio che il governo regolamenti (non chiuda) le saune e i sex-clubs, per essere sicuro che questo settore commerciale obblighi i clienti al sesso sicuro.

Che però dici che non funziona...
Perché siamo solo esseri umani e cadiamo in tentazione... Ecco perché occorre che lo Stato assuma controllori che veglino affinché le regole del sesso sicuro siano rispettate nei locali gay.

E poi, per essere più sicuri, che controllino quello che fa la gente a casa sua?
A casa sua ognuno fa quel che vuole. Ma non è giusto che ci sia chi approfitti economicamente della stupidità altrui.

Perciò uno potrà fare sesso non sicuro in un parco, dove nessuno approfitta economicamente della cosa?
Guarda, tu ragioni in termini di princìpi dei diritti civili; io invece in termini pragmatici: abbiamo un problema: l'Aids; dobbiamo risolverlo. Per me è necessario ottenere il massimo di prevenzione infrangendo il minimo possibile i diritti civili.

Se è come dici tu, allora non potrai negare che il modo più "pragmatico" per bloccare le infezioni sia proibire totalmente il sesso gay: c'è già stato chi lo ha proposto. E poi (salvo il caso degli atti osceni in luogo pubblico), non è logico che lo stesso atto sia accettabile o no a seconda del posto in cui viene compiuto.
Ma io non sto parlando di proibire il sesso nei luoghi pubblici...

...che comunque è già proibito dalla legge. In una sauna puoi almeno fare prevenzione, in un parco, no.
Non è vero: puoi. Ed anche nei sex-clubs: nel periodo in cui i proprietari fecero osservare rigidamente le regole del sesso sicuro ci fu un crollo delle sieroconversioni. Oggi però a New York è normale avere rapporti non protetti in tutti i sex-clubs gay!

Io ho distribuito preservativi nei parchi, ed era quasi più la gente che li rifiutava che quella che li accettava. Non è allora logico mandare la polizia nei parchi, per tutelare la salute di chi li frequenta? I politici di destra qui da noi lo chiedono da un secolo.
Guarda, io credo che ci sia una differenza fra gli Usa e l'Italia: noi abbiamo l'enorme privilegio per cui questa discussione sulle saune avviene interamente fra gay all'interno della comunità gay: persino gli articoli che riferiscono del dibattito sulla stampa non gay sono scritti da giornalisti gay. La nostra situazione è dunque diversa da quella a cui stai pensando tu in Italia.

Prendo atto della differenza. Mi resta però l'impressione che, da come parli, tu pensi quasi che abbiamo già perso la guerra contro l'Aids.
Sì, lo penso.
Non è un caso che questa epidemia sia sorta nel momento in cui le persone omosessuali erano sempre più visibili e nel momento in cui era in corso una rivoluzione sessuale senza precedenti: forse mai nella storia umana una persona era riuscita ad avere in una settimana l'incredibile numero di partner che aveva un gay americano di New York o San Francisco negli anni Settanta.
Gabriel Rotello in un suo recente libro sostiene che questo virus ha trovato una "nicchia ecologica" per svilupparsi grazie alla presenza concomitante di questo fatto, della rivoluzione industriale in Africa, dell'avvento delle trasfusioni di sangue e dello scambio di siringhe dovuto alla tossicodipendenza: tutto in una volta sola!
Di fronte a questo sconvolgimento di costumi senza precedenti, il preservativo è stato giusto un cerotto su una piaga. Se guardiamo ai numeri, l'ideologia del preservativo non ha funzionato, perché la gente non lo ha usato.

Ma non è strano accusare il preservativo di non aver funzionato perché non è stato usato? A questa stregua, cosa può funzionare?
Un cambiamento di mentalità.
Un dibattito sulla sempre crescente commercializzazione della cultura gay.
Non dico che la gente debba diventare monogama, però deve guardare al proprio comportamento personale e vedere quanto sia autentico in esso e quanto sia invece solo comportamento robotico, adesione conformistica ad uno stile di vita, un obbligo compulsivo.
Io dico che ora si "esce dal nascondiglio" solo per buttarsi in un consumo ossessivo di sesso, nell'uso di droghe, nell'adesione a mode e nell'esclusione di tutti coloro che non condividono questo stile di vita: e allora si è solo scambiato un nascondiglio con un altro.

Io però non uso droghe, non vesto alla moda, non frequento locali, non faccio sesso "a rischio", eppure faccio parte del mondo gay come chiunque altro. Non sei allora tu, forse, a confondere il mondo gay con il solo mondo dei frequentatori dei locali gay?
Guarda, mi piacerebbe che un ragazzo di vent'anni sentisse parlare anche di te e del tuo stile di vita. Negli Stati Uniti ci sono sempre più lesbiche e gay che hanno scelto uno stile di vita "di periferia", che vivono nei suburbs senza più spostarsi nelle grandi città. È un fenomeno sociale che è sempre più importante: le lesbiche ed i gay ormai fanno il coming out anche in provincia, e restano lì a vivere.
Il punto, però, è che un ragazzo gay di vent'anni non immagina nemmeno che possa esistere il tuo stile di vita, non immagina che possa esistere un modo di essere omosessuale che non sia quello della frequentazione di locali commerciali.
Ecco perché è necessario che cambino i messaggi che gli arrivano dal mondo gay, dai mezzi d'informazione, e che gli venga detto che esistono alternative al comportamento compulsivo.
Sì. Penso che la cosa oggi più necessaria sia un cambiamento di mentalità.
 


Tratto da: "Babilonia"
 
 
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