Home page Giovanni Dall'Orto > Saggi di storia gayBiografie di personaggi gay > Giacomo Leopardi > 2 Dall'Orto - Sempre caro mi fu...

Dibattito Fregnani-Dall'Orto su Giacomo Leopardi e l'omosessualità:
Vai allo scritto precedente - Vai allo scritto successivo.


Giovanni Dall'Orto

SEMPRE CARO MI FU...

[Nota: questa è la prima versione dello studio che ho accresciuto ed aggiornato e messo online qui].

   Leopardi e Ranieri: non sono il primo a parlare di questa "strana coppia" da un'ottica gay (1). Non ritengo però inutile ristudiare questa amicizia, perché ho l'impressione che non sia stata ancora detta l'ultima parola. Da un lato, infatti, i gay che tentano una lettura gay trascurano i dotti studi dedicati alla strana amicizia; dall'altro tali studi eludono, puramente e semplicemente, la domanda "scabrosa".

   Ho voluto perciò provare a riaffrontare la questione usando infine i "dotti studi" (2) per porre quelle domande che evitano, e spero di esser riuscito a trovare una risposta convincente.

   Cominciamo dai fatti noti.

   Giacomo Leopardi (1798-1837) conobbe a Firenze nel 1827 il napoletano Antonio Ranieri (1806-1888), studente ventunenne, che un biografo descrive così: "giovanissimo, bellissimo, aitante della persona" e con "quell'ardor giovanile dell'animo che tanto piace al bel sesso" (3) (e non solo...).

   Nel 1830 la frequentazione si fece assidua, e nell'inverno 1831/32 i due trascorsero cinque mesi a Roma (4), ufficialmente per la salute del Leopardi, in realtà perché Ranieri voleva star vicino all'attrice Pelzet (sposata!) per cui smaniava.

   Quando nel 1832-33 Ranieri tornò a Napoli dalla famiglia, che versava in dissesti finanziari sempre più gravi, Leopardi gli scrisse da Firenze frequenti lettere d'amore. In esse leggiamo dichiarazioni come questa:

   "Ranieri mio, tu non mi abbandonerai però mai, né ti raffredderai nell'amarmi. Io non voglio che tu ti sacrifichi per me, anzi desidero ardentemente che tu provvegga prima d'ogni cosa al tuo ben essere: ma qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in modo, che noi viviamo l'uno per l'altro, o almeno io per te; sola ed ultima mia speranza. Addio, anima mia. Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento possibile e non possibile, sarà eternamente tuo" (5).

   Un'"amicizia" così "accesa" non passò inosservata, come emerge da un'altra lettera che accenna alle "derisioni" che scatenava:

   "Povero Ranieri mio! Se gli uomini ti deridono per mia cagione, mi consola almeno che certamente deridono per tua cagione anche me, che sempre a tuo riguardo mi sono mostrato e mostrerò più che bambino. Il mondo ride sempre di quelle cose che, se non ridesse, sarebbe costretto ad ammirare; e biasima sempre, come la volpe, quelle che invidia.

   Oh Ranieri mio! Quando ti ricupererò? Finché non avrò ottenuto questo immenso bene, starò tremando che la cosa non possa esser vera. Addio, anima mia, con tutte le forze del mio spirito. Addio infinite volte. Non ti stancare di amarmi" (6).

   E ancora:

   "Ranieri mio, non hai bisogno ch'io ti dica che dovunque e in qualunque modo tu vorrai, io sarò teco. Considera bene e freddamente le tue proprie convenienze (...) e poi risolviti. La mia risoluzione è presa già da gran tempo: quella di non dividermi mai più da te. Addio" (7).

   E quando infine Ranieri parte alla volta di Firenze per andare a prendere l'amico, al quale ha proposto di vivere a Napoli insieme, Leopardi gli scrive:

   "Ranieri mio. Ti troverà questa ancora a Napoli? Ti avviso ch'io non posso più vivere senza te, che mi ha preso un'impazienza morbosa di rivederti, e che mi par certo che se tu tardi anche un poco, io morrò di malinconia prima di averti avuto" (8).

   Dirò subito che leggendo queste e le altre lettere di solito si ricava l'impressione che fra i due esistesse una relazione. Si ha un bel ricordare che nell'Ottocento l'amicizia si esprimeva in termini molto più calorosi che ai giorni nostri. Ciò è vero, ma è altrettanto vero che qui si era comunque passato il segno anche delle convenzioni dell'Amicizia Romantica, come dimostrano le considerazioni del Leopardi a proposito delle "derisioni".

   Anzi, per maggior chiarezza Ranieri si affannò a rivelarci da cosa nascessero "scandalo" e derisione: dall'eccessiva intimità fra i due. Appena arrivati a Napoli assieme, nel 1833: "io, lasciatone il mio antico letto, dormiva in una camera non mia (cosa che nelle consuetudini del paese, massime in quei tempi, toccava quasi lo scandalo), per dormire accanto a lui" (9).

   Tanta premura suscitò i sospetti della padrona di casa che "Mi dichiarò: ch'io le aveva introdotto un tisico in casa; che, amandolo tanto da fargli le nottate, non altra poteva essere la cagione onde non gliele facessi in casa mia; ch'essa voleva, ad ogni costo, essere sciolta dall'affitto" (10).

   Un incidente simile era già accaduto a Roma, dove un maligno parrucchiere compaesano di Leopardi, stupito della convivenza fra i due, s'era premurato di riferire certi pettegolezzi a Ranieri:

   ""Io sono", mi disse, "di Recanati. (...) Com'è ch'ella ha con sé il figliuolo del conte Monaldo?".

   Percosso dalla improvvisa ed inattesa interrogazione, io levai su il capo, e lo guardai! E scorgendogli una certa ciera maliziosa, n'ebbi un momento di stupore! Poscia, raccolto l'animo:

   "Con me?..." risposi, con severità. "Non so che cosa vogliate intendere. Vuol dire, che siamo due amici ch'è s'è preso un quartiere [appartamento] insieme".

   Ignaro che s'era prossimi alla camera del mio amico, e però [perciò] non parlando basso quanto avrebbe dovuto, egli replicò, sorridendo:

   "Ho detto così, perché conosco assai bene le cose di colà, gli umori del padre e del figliuolo; l'odio implacabile di costui al clima ed agli abitatori di quel paese..."

   E soggiunse, con importuna loquacità, ch'io repressi raddoppiando di severità, assai altri particolari, i quali o io conosceva assai meglio di lui, o non m'importava né punto né poco di conoscere" (11).

   Appena uscito il pettegolo, piomba Leopardi e si sfoga:

   "Sappi, ch'io divento un forsennato, al solo sognare di andarne per le bocche di quella gente [i recanatesi]; sappi, che io inventai, invento ed inventerò tutte le favole, tutti i romanzi di questa terra, per salvarmi da questa orribile sciagura!" (12).

   Ranieri gli riconferma la sua amicizia, però aggiunge velenoso:

   "Ma, io confesso, che non avrei mai inteso concedergli quella <libertà> che mi si riferisce leggersi in alcune delle sue lettere. E dico: mi si riferisce; perché, insino da una prima pubblicazione di questa specie, io, tre volte tentai di farne lettura, e tre fui preso dalla febbre" (13).

   Eccoci allora al dunque: quali che fossero le convenzioni dell'amicizia dell'Ottocento, è Ranieri stesso a dirci che le lettere di Leopardi andavano oltre l'accettabile, al punto che la sola (ri)lettura gli procurava la febbre!

   Ma allora i due stavano assieme o no? A giudicare dal fatto che Leopardi aveva bisogno di certe misteriose "passeggiate" e di certi incontri con sconosciuti proletari, non direi proprio che fra i due ci fosse, o ci fosse più, una relazione erotica:

   "Mi parve di scorgere, prima in Roma, poscia, assai più di frequente, qui, che altre ragioni gli destavano l'inesplicabile desiderio di andar fuori solo, e che queste fossero certe più libere confabulazioni con certa gente verso la quale, prima io da solo in Roma, poscia insieme con l'aureo Margàris, qui, non si era mancato di dire la mente [opinione] nostra.

   Ma ciò era niente. (...). Leopardi era tenerissimo, gelosissimo de' suoi segreti (...). Noi, d'altra parte, s'era sdegnosissimi di saper novelle [notizie] de' fatti altrui, e rispettosissimi della sua libertà. E non ci avanzò altro partito [non ci rimase altra scelta] se non, ad amendue, in generale, di astenerci da qualunque altro motto [commento] in proposito; ed a me, in particolare, di uscire costantemente dalla stanza quando qualche innominato sopravveniva" (14).

   Occorre forse qualche commento?

   Fin qui i dati che i protagonisti ci hanno lasciato. Vediamo ora d'integrarli con ciò che i biografi hanno scoperto.

   Un primo dato che emerge leggendo le biografie è che Ranieri fu un donnaiolo accanito e sconsiderato, come esemplifica la sua avventura con la Pelzet (che non fu la sola). Leopardi, al contrario, non ebbe notoriamente avventure o storie con donne.

   Un secondo dato è che le memorie scritte da Ranieri sono inattendibili. Esse furono scritte non per tramandare, ma per occultare "qualcosa". Forse una relazione omosessuale?

   Ahimè, purtroppo no: si tratta più banalmente una relazione parassitica. Ciò che Ranieri non solo tace nelle memorie, ma anzi occulta descrivendo Leopardi come suo ospite spesato di tutto, è che la sua famiglia era alla bancarotta. Negli anni in cui i due convissero, fu Leopardi a pagare i conti. Anzi: ad un certo punto si trovò in casa pure la sorella di Ranieri, Paolina (15)!

   Questa "scoperta" cambia l'ottica in cui leggere la relazione. Che Leopardi fosse cotto di Ranieri, ce lo dicono a sufficienza le lettere. Che Ranieri, perso nei suoi amori con donne, reciprocasse tale amore, lo nega la sua biografia. Se dunque amore ci fu, esso fu a senso unico.

   Si capisce perciò anche perché Ranieri, della sua pluriennale convivenza con Leopardi, ci abbia lasciato solo pettegolezzi e insinuazioni: la reale grandezza di Leopardi gli sfuggì. Per lui Leopardi fu soprattutto un "ricchione" innamorato, della cui debolezza umana approfittare. Si capisce anche perché egli ci abbia tenuto a tramandare i fatterelli che ho sopra citato: per stabilire che "o' ricchione era isso", Leopardi, non lui.

   In quest'ottica assumono dunque un preciso significato le sibilline lamentele del Ranieri per i "soliloqui amorosi" (in circostanze "di cui è assai bello tacere") con cui Leopardi lo tormentava. Gli studiosi hanno inteso che i "soliloqui" riguardassero amori impossibili per donne. Mi permetto di dubitarne, e noto di essere, per fortuna, in buona compagnia:

   "I soliloqui amorosi nei cui scabrosi anfratti il Ranieri dice di essersi spesso e con sua grande angoscia trovato, non s'hanno altrimenti a interpretare che come vaneggiamenti d'amore che egli sarebbe stato spesso costretto a udire dalla bocca del sodale. Ma perché e come costretto? Queste sono le circostanze che egli dice assai bello tacere. Se è vero ciò che, cercando, ho udito vociferare, non solo il giovinetto congiunto di Aspasia, di cui parla il Carducci, avrebbe rappresentato il simulacro di lei alla mente allucinata del poeta ed eccitatone il delirio loquace, ma eziandio [anche] il sodale Ranieri; ciò che chiarirebbe la reticenza di questo luogo che altrimenti rimarrà sempre inesplicabile" (16).

   Non posso non sottolineare l'importanza di questa testimonianza, che viene da chi aveva accesso a testimonianze dirette. Da essa apprendiamo infine che esistettero "vociferazioni" sull'innamoramento di Giacomo, a Firenze, non di "Aspasia", bensì del "giovinetto congiunto".

   Veniamo anche a sapere che "si vociferava" che tale amore riguardasse "eziandio il sodale Ranieri". Eccoci, finalmente!

   Di mio aggiungerò che mi pare bizzarro che Leopardi, innamorato invano della bella Fanny Targioni-Tozzetti alias "Aspasia" (con la quale Ranieri aveva una tresca amorosa!), preso da furore amoroso travasasse la passione sul "giovinetto congiunto" solo perché... le assomigliava. A me pare più plausibile che amasse il "giovinetto" ma ostentasse di amarne la "congiunta"!

   Insomma, l'idea di una relazione fra Leopardi e Ranieri, bella, poetica, romantica, purtroppo non regge. Aveva ragione Ranieri: "o' ricchione" era davvero solo Giacomo. Su lui va dunque concentrata la nostra maliziosa attenzione.

   C'è qualcos'altro, allora, su Leopardi? Sì. Innanzi tutto, pochi lo sanno, esiste una serie di documenti inediti che gli attuali conti Leopardi rifiutano di mettere a disposizione degli studiosi. Si tratta, affermano i conti, di opere giovanili irrilevanti, che nulla aggiungono alla comprensione dell'artista.

   Le tesi è bizzarra, dato che se davvero fossero cose "irrilevanti" non ci dovrebbe essere nessun motivo per non farle consultare... a meno che esse contengano fantasie e confessioni che gli eredi non vogliono che diventino pubbliche (17)!

   Leopardi era in effetti capace di scrivere apertamente di omosessualità: lo rivelano tre appunti dallo Zibaldone, in data 1821 e 1824: essi, a mio parere, documentano il tormentato tentativo del giovane Leopardi di venire a patti con una certa parte di sé. Il primo appunto, con tono falsamente asettico, anzi cosparso di qualche esecrazione, nota come l'amore vero, per l'antichità, fosse quello omosessuale:

   "Il vantato amor platonico, sì sublimemente espresso nel Fedro, non è che pederastia. Tutti i sentimenti nobili che l'amore ispirava ai greci, tutto il sentimento loro in amore, sia nel fatto sia negli scritti, non appartiene ad altro che alla pederastia, e negli scritti di donne (...) all'amor di donna verso donna. Basta conoscere un sol tantino la letteratura greca da Anacreonte ai romanzieri, per non dubitar di questo, come alcuni hanno fatto" (18).

   Subito dopo queste righe, forse temendo di essersi spinto troppo in là, Giacomo aggiunge un'altra noterella: "Forse all'esuberanza di vita si può attribuire la grande universalità della pederastia nella Grecia (...) mentre fra noi bisogna convenire che questo è un vizio antinaturale, un'inclinazione che il solo eccesso di libidine snaturante i gusti e l'inclinazione degli uomini, può produrre" (19).

   Sul tema Giacomo ritornò nel 1824, ribadendo i due corni del dilemma: "Alle altre barbarie umane da me altrove notate si aggiunga la pederastia, snaturatezza infame (...); non fu solo propria de' barbari ma di tutta una nazione così civile come la greca, e per tanto tempo (lasciando i romani), e sì propria che sempre che i greci scrivono d'amore in verso o in prosa, intendono (eccetto ben rade volte) di parlare di questo siffatto" (20).

   Per Leopardi ventitreenne e poco più, insomma, l'omosessualità e quella cosa che è nobilissima fra gli amatissimi greci, ma che oggi è sordida e turpe. Come risolvere la contraddizione?

   Forse amando "castamente" gli uomini (ad esempio Ranieri) ma negandosi il sesso. O forse come milioni di omosessuali di tutti i tempi: prima cedendo ai sensi, e poi vergognandosi di quel che s'è fatto. O forse ancora in altro modo, che solo le carte inedite degli eredi Leopardi possono svelarci.

   Purtroppo Leopardi divenne, già in vita, una sorta di "santino patriottico", una gloria nazionale italiana della quale era consentito dire solo bene. Ci manca perciò nel suo caso il "pettegolezzo storico" che di solito emerge, magari decenni dopo i fatti narrati, da lettere, diari, memorie di contemporanei. Spettegolare sulla sua vita sessuale sarebbe stato sacrilego; l'unico che osò farlo, Ranieri, fu costretto a dire e non dire.

   Eppure sono convinto che una lettura gay delle opere del Leopardi vada fatta. A ben pensarci, cos'è "Il Sabato del villaggio" se non la lamentela di chi vede "la gioventù del loco" (etero) che "mira ed è mirata", mentre lui è escluso dalla festa d'amore? Cos'è "Il passero solitario" se non l'espressione dell'isolamento d'ogni gay che si sente "unico al mondo"? Cos'è "A un vincitore nel pallone" se non l'esaltazione della gioventù virile?

   Forse i documenti più significativi della condizione omosessuale del Leopardi sono proprio lì, sotto gli occhi di tutti: sono le poesie che abbiamo studiato dalle elementari in poi.

   Ci hanno raccontato che Leopardi fu celibe perché era gobbo. Balle. Era se non ricco benestante, era nobile, era stimato: una donna che lo sposasse, in un'epoca in cui il matrimonio era ancora visto come un affare economico, l'avrebbe trovata, se l'avesse voluta. Invece insistette a far la corte a donne sposate o "impossibili". Tipica strategia per non essere reciprocato...

   Solo se Antonio, il bell'Antonio, avesse accettato di sposarlo, la sua vita avrebbe potuto essere davvero diversa...
 


[Vai alla pagina di Giovanni Dall'Orto di biografie di gay nella storia]  [Vai all'indice dei saggi di storia gay di Giovanni Dall'Orto]