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Pasquale Chessa (a cura di), Se Garibaldi avesse perso. Storia controfattuale dell'Unità d'Italia, Marsilio, Venezia 2001.
 
Copertina di ''Se Garibaldi avesse perso'', a cura di Pasquale Chessa.

[Saggio]

Recensione di Giovanni Dall'Orto



 
Garibaldi fu ferito... e in un certo senso, anche ammazzato

La prima cosa in assoluto che imparano gli storici di professione è che "la storia non si fa coi "se"."
Non è stata quindi un'idea brillante affidarsi a storici di professione per un libretto, che sulla copertina si proclama "controfattuale", chiedendosi cosa sarebbe stato dell'Italia se Garibaldi avesse perso, o se fosse stato ucciso appena messo piede a Marsala.

Per lo più, gli storici interrogati si muovono con piedi di piombo e parecchia prudenza, che per carità, accademicamente è lodevole, ma per quanto riguarda la "controfattualità" (cioè il gioco della "storia alternativa" o "ucronia") non centra proprio il bersaglio.
Nel rivolgersi a un pubblico vasto e non accademico, un gioco come quello della controfattualità può in certi casi funzionare nell'attrarre lettori, ma qui il gioco proprio non funziona.

Per fortuna funzionano le analisi degli studiosi interpellati, tutte di buon interesse, sia pure nella brevità eccessiva che le caratterizza.


La parte che funziona meglio in questa raccolta di pareri sta paradossalmente nella loro capacità di smantellare le "storie alternative" altrui, quelle cioè su cui delirano tutti i leghisti di tutte le salse, sia del nord che del sud.
È stato un gioco troppo facile per quei "revisionisti" massacrare le generazioni che l'unità d'Italia la vollero e la fecero, nel nome d'un ritorno a una lettura acriticamente papalina e sanfedista delle nostre vicende.
L'esame dei fatti mostra quanto poco sugo ci sia in questa controstoria, che immagina per esempio un Regno del Sud indipendente e ricco, sotto l'ala protettrice dell'Inghilterra, industrializzato e fiorente. Non si comprende però per quale motivo l'Inghilterra avrebbe avuto interesse a darsi la zappa sui piedi creando nel Sud Italia un concorrente in campo industriale, anziché un innocuo fornitore di arance, essenza di bergamotto e vino marsala, esattamente come ha fatto con un altro Stato "protetto", il Portogallo (con la sola differenza del vino di Porto, anziché il marsala). Non ci sarebbe quindi stata una piccola Italia, in quel Sud, ma una grossa Tunisia.
Fu l'Unità a renderci - tutti, sfruttatori e sfruttati, baroni feudali e braccianti, codini clericali e massoni anticlericali... - abbastanza forti da avere "massa critica" per il decollo: il delirio relativo a prosperi piccoli stati "padani" o "napolitani" è appunto questo. Se i nostri antenati, celti e con le corna o non celti e senza le corna che fossero, quell'Unità l'hanno voluta, non è stato per un empito sconsiderato di generosità e altruismo, ma perché avevano fatto i loro conti e visto che conveniva loro.

Certo, io capisco la prudenza di questi storici nel percorrere traiettorie alternative dato che, qualora la spedizione dei Mille fosse fallita, sarebbe stata la storia d'Europa tutta ad esserne cambiata. Senza un'Italia unita, come sarebbe stata la Prima guerra mondiale? E chissà, magari l'Unità si sarebbe fatta in quell'occasione, magari sotto la corona del re di Napoli. O magari si sarebbe fatta nel 1945, quando i Soviet del popolo avessero catturato in Vaticano il Papa-Re fucilandolo in Piazza San Pietro e sequestrando tutti i beni della Chiesa. Chissà. La storia non ha regole, non è mai "necessaria", però è un piano inclinato, e l'acqua degli eventi scorre sempre nel senso dell'inclinazione. (Oppure qualcuno pensa davvero che se il Nord avesse perso la guerra di Secessione americana, oggi ci sarebbe un Sud che pratica ancora la schiavitù? Forse ci sarebbero due entità statuali, o forse ci sarebbe stata la Seconda guerra di secessione, ma di certo la schiavitù non ci sarebbe comunque, in nessuno dei due casi).

E se state sobbalzando a leggere queste mie boutades, vi capisco: la storia non si fa coi "se".
Ciò detto, resta il fatto che la tendenza all'Unità nasceva da interessi concreti e tali da realizzarla comunque e in modo diverso.
Certamente con confini diversi, ma l'avremmo avuta. Se non altro perché l'Italia unita era malvista da molti, che non la volevano, ma esattamente per questo era benvista dai nemici di quei "molti".


Al di là del mancato "divertimento" a questo gioco, il libriccino ha, come si suol dire, le contropalle, e pone diversi interrogativi interessanti.

Il principale dei quali è che, come sottolinea uno dei contributi, la vera "storia controfattuale" fu quella che poi è diventata la storia reale ("La storia dei fatti accaduti supera la fantasia dei fatti immaginati"; così Luciano Cafagna a p. 40), dato che nessuno dei protagonisti (dal re di Sardegna a Garibaldi a Napoleone III a Cavour) stava lavorando per i risultati a cui alla fine si pervenne. Tant'è che Mario Isnenghi (p. 74) alla domanda del titolo risponde: "Ma Garibaldi ha perso".
L'Italia unita che risultò dagli eventi non era infatti quella per cui aveva combattuto. Tant'è che, esaurito il suo ruolo, nel 1862 fu preso a fucilate dall'esercito dello Stato che aveva creato, sull'Aspromonte, e ferito.

Però quell'Italia non era neppure quella per cui s'era mosso Cavour, che prudentemente aveva brigato solo per un Regno di Sardegna allargato (cfr. p. 28), magari raddoppiato, ma era terrorizzato dall'instabilità politica causata dai movimenti rivoluzionari necessari a cambiare davvero il quadro politico esistente. Certo, Cavour alla prova si dimostrò un politico geniale, capace di afferrare al volo tutte le occasioni che gli si presentarono e di volgerle a favore del suo Stato e del suo re, resta però il fatto che furono gli altri ad offrirgli quelle occasioni. E nel libriccino qualcuno insinua che forse lo consideriamo geniale solo perché ebbe il buon gusto di morire prima di dover dare prova di sé nella gestione della nuova e raffazzonata compagine statuale.

Infine, questa Italia non era neppure quella per cui s'era mosso Napoleone III, che pensava solo di semplificare il quadro con tre regni, più ampi, piazzando suoi parenti su due di quei troni. Di sicuro però non progettava un grosso stato unitario ai propri confini (p. 65), specie poi se nato a spese del papa.

Fu proprio Garibaldi a scombinare le carte, obbligando finalmente i "moderati" (la zavorra di tutta la storia d'Italia) a muoversi per impedire che finisse per vincere tutto lui, quel pazzo rivoluzionario repubblicano. Una volta che avesse preso Roma, chi gli avrebbe impedito di proclamasi presidente della Repubblica Italiana del centro-sud?

Insomma, una volta messo in moto il meccanismo, la politica italiana divenne un "scheggia impazzita" (così Franco Cardini, p. 61) in cui le palle del biliardo iniziarono a frullare tutte assieme urtandosi e deviandosi a vicenda, al punto che nessuno riuscì più non dico a indirizzarle, ma anche solo a prevedere dove potessero andare a imbucarsi.


L'esiguità del libretto (112 pagine in formato pocket) fa sì che l'insieme sia di rapida e agevole lettura, quasi uno spuntino letterario senza impegno. Ideale per un viaggio in treno non troppo lungo, o per un pomeriggio in casa.

Una sola cosa manca a questi storici: il coraggio della passione politica. Di fronte a una casta partitocratica che ha trasformato per decenni alcuni dei temi qui trattati in armi contundenti al servizio della macchina del fango, ci sarebbero volute risposte forti e chiare. Magari rischiando di sbagliare, ma mettendosi in condizioni tali da re-agire a questo andazzo, alle falsificazioni, alle mitologie. Invece, il libro è costellato da punturine garbate e delicate frecciatine, da sgridatine, di dico-ma-non-insisto, di vaghi e generici accenni all'esecrabilità di certune posizioni, che solo di rado escono allo scoperto, magari per dire che l'idea di Padania è risibile. Lo è, ma il punto non è questo, visto che gli stessi storici di questo libretto sottolineano poi che duecento anni fa lo era anche l'idea d'Italia (cfr. p. 96).
Il solo spunto di riflessione netto, in questo campo, è quello fornito da Cafagna a p. 44, che giudica "devastante" l'introduzione delle autonomie regionali. Una posizione che non condivido, ma che almeno fa pensare, pur sacrificata com'è da uno spazio tiranno.

L'approccio politico è riservato al presidente Napolitano, di cui è stato pubblicato il discorso ufficiale per il centocinquantenario d'Italia, che è l'esatto opposto del resto del libro: una celebrazione squisitamente politica del Risorgimento, interessante in quanto tale, ma priva di particolare spessore storiografico. A che pro?

Manca così la capacità di sintesi fra due ambiti che non si stanno parlando, e così facendo si lascia ulteriore spazio agibile ai leghismi. Che non sono solo quelli di Bossi, ma anche quelli altrettanto sciovinisti dei Lombardo e dei movimenti "autonomisti" del Sud.

Certo, di sicuro un libretto di 112 pagine non è lo strumento più adatto a profligare i revisionismi storici che hanno pullulato nel periodo berlusconiano. Però visto che con quest'opera si era deciso di prendere il toro per le corna, tanto valeva portare la corrida fino in fondo. Olé.


 
 
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