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Michael Coe, La soluzione del codice Maya, La Linea, Bologna 2012 [1992].
 
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[Saggio]

Recensione di Giovanni Dall'Orto


L'affascinante storia della decifrazione d'una scrittura antica, quella dei Maya.

Questo è un testo che racconta come siano stati decifrati i "geroglifici" Maya, anche se la fascetta messa dall'editore cita due versi che spingerebbero a pensare che si tratti di un'antologia poetica sulla mitologia Maya e le sue fisime bacate sul calendario o la fine del mondo. Invece il libro non parla né di poesia né di mitologia, bensì di come un lavoro d'equipe sia riuscito a decifrare in un paio di decenni una scrittura che tutti s'erano rassegnati ormai a considerare "indecifrabile".

In effetti, quand'ero al liceo (parliamo degli anni Settanta) i geroglifici Maya mi erano citati come uno degli esempi più netti di scrittura indecifrabile "per l'assenza d'una stele di Rosetta" bilingue.
Peccato però che un testo bilingue di tale tipo esistesse, e che uno studioso sovietico, Jurij Knosorov, lo avesse già usato fin dal 1952 per fornire la chiave della decifrazione.

E allora perché c'è voluto così tanto tempo per la decifrazione? La risposta è in questo libro, scritto per un pubblico non specialistico (e che quindi si lascia leggere senza la minima difficoltà e pedanteria), che racconta il processo attraverso il quale si arrivò infine alla decifrazione. (Un ottimo esempio delle difficoltà incontrate è del resto questa stessa traduzione italiana, che risale al 2012 - giusto in tempo per la fine del mondo prevista dal calendario maya! - mentre l'originale fu scritto nel lontano 1992...).

L'autore attribuisce la difficoltà di far accettare la decifrazione di Knosorov allo strapotere d'un singolo studioso, Eric Thompson, che fino alla morte dominò il campo con la sua erudizione e con le sue tesi. Che sostenevano che i "glifi" della scrittura Maya fossero "geroglifici" che esprimevano concetti religiosi astratti, ma senza alcun rapporto con i suoni della parola che nella lingua parlata esprimeva quel concetto. Quindi si poteva intuirne il senso, ma non certo "leggerli", nel senso in cui noi leggendo in sequenza le lettere recuperiamo il suono d'una parola.

Eric Thompson sbagliava ma (secondo la ricostruzione di Coe) il suo ruolo di "autorità in materia" impedì fino al 1975 il trionfo delle tesi corrette. (E cioè, semplificando molto: per lo più ogni segno indica una sillaba, e l'assemblaggio dei segni, il "glifo", permette di leggere una parola. In realtà le cose sono un po' più complesse di così, ma chi volesse approfondire, legga questo libro).

Ora, Coe fa parte del gruppo di persone che realizzarono l'impresa. E il divertimento di questo libro sta proprio nel racconto, anno dopo anno e personaggio dopo personaggio, quasi "in presa diretta", di quanto accadde nella combriccola dei mayisti. Ancora più divertente è il fatto che racconti con mano leggera le rivalità accademiche e i dispettucci fra luminari, che con il loro scoppiettio rendono umano e a tratti divertente un racconto che, trattato in altro modo, avrebbe potuto risultare noiosissimo.

Ciò non toglie che Coe sia parte in causa e che, come ognuno di  noi, tenda a diventare presbite quando guarda le cose che lo riguardano da vicino. Quanto generoso è di aneddoti sull'ostilità di Thompson alla visione delle cose che Coe sostenne nella diatriba, tanto reticente è nel trattare il vero motivo di tanto ritardo, che emerge qua e là, a tratti, per mezze ammissioni, in piccoli ritagli accennati e mai detti apertamente: il razzismo. Semplicemente, il mondo accademico non riusciva a credere che gli avi degli attuali indios maya (persone stupide, ottuse, ignoranti, come alcuni studiosi affermano espressamente in brani citati in questo libro!) fossero stati capaci di tali realizzazioni intellettuali. E tanto più i loro avversarsi si affannavano a spiegare con paralleli come anche gli egizi... i sumeri... gli ittiti... avessero utilizzato soluzioni di scrittura che si ritrovano nei glifi Maya, tanto più tali paralleli mandavano il sangue alla testa, dato che elevavano i Maya allo stesso livello delle antiche culture classiche occidentali.

Coe sceglie - e penso lo faccia deliberatamente - di trattare sempre come irrilevante l'aspetto politico della sua impresa intellettuale. Il furibondo anticomunismo di Thompson (che sfotte l'impresa di Knosorov come l'ennesima pretesa propagandistica dei comunisti di avere capito tutto loro per primi) è presentato come un elemento folcloristico irrilevante e nulla più. La condizione di proprietario terriero in Sudamerica di Thompson è accennata come un mero pettegolezzo biografico privo di conseguenze. La demolizione (non metaforica, ma con motoseghe) delle iscrizioni Maya da parte delle destre, o le minacce di morte rivolte dagli squadroni della morte a Knosorov quando riuscì infine a mettere piede in quelle terre, sono giusto accennati come incresciosi incidenti privi di senso per lo studioso. E così via. Di tutta una guerra delle élites bianche contro la cultura, la lingua e la storia degli attuali maya resta solo qualche annotazione sparsa, come per esempio un accenno stupito di due righe sul fatto che nelle scuole sia proibito l'insegnamento delle lingue maya.

Eppure, si può spiegare solo col razzismo un elemento incredibile che appare di continuo nel libro: quasi nessuno di coloro che si cimentò nella decifrazione della scrittura maya conosceva le lingue maya attuali (molti non sapevano neppure lo spagnolo!). Tutti i decifratori delle scritture antiche del bacino mediterraneo avevano al contrario un solido bagaglio linguistico (Champollion, per esempio, decifrò l'egizio antico a partire dal copto, la lingua evolutasi da esso). Come spiegare allora la leggerezza con cui si era trattato come irrilevante, per capire il passato, ciò che esiste oggi, se non come una presa di posizione ideologica che intendeva negare che fra i costruttori di quelle città e i contadini d'oggi esistesse un qualche rapporto?
Coe racconta con accenti lirici la scoperta della caverna di Naj Tunich, le cui iscrizioni e i cui disegni arricchirono le conoscenze sui Maya e bla bla bla. Non dice però che pochi anni dopo la scoperta quelle iscrizioni e quei disegni sono stati graffiati e raschiati via accuratamente da cristiani evangelici del luogo, decisi a cancellare dalla faccia della terra quelle vestigia "pagane".
Di fronte a tanto e tale accanimento, davvero è possibile pensare che il secolo di ritardo accumulato nel decifrare questa lingua si debba solo al caso, o a una coincidenza, o addirittura al carattere caparbio d'un unico studioso? Andiamo!...
Io non lo penso, e penso che Thompson rischi di fare da capro espiatorio (essendo nel frattempo, convenientemente, defunto) per tutta una classe di accademici che a furia di voler essere "accomodanti" col potere e i preconcetti, per motivi squisitamente politici, sono venuti meno al loro dovere di studiosi.


Insomma: la lettura di questo libro è affascinante per due ordini di motivi.
Da un lato, la "caccia al tesoro" che ci porta, di ragionamento in ragionamento, di glifo in glifo, a ricostruire il processo attraverso il quale un intero team di studiosi è riuscito nell'impresa. A un certo punto, grazie alle spiegazioni esaurienti, si riesce a volte ad arrivare da soli alla conclusione mentre Coe la sta enunciando. E questo garantisce una bella soddisfazione intellettuale e un bel divertimento.
Divertimento accresciuto dalla natura stessa della scrittura maya, che a volte utilizza piccoli rebus, sostituendo un segno che ha un certo suono con il disegno d'una parola che ha quel suono.
Coe ha il dono della divulgazione, e riesce a raccontarci una materia oggettivamente astrusa affascinandoci come la nonna quando ci raccontava le favole quando eravamo bambini.

Sul secondo piano, questo libro è un interessante contributo di storia della cultura, che mostra come i pregiudizi politico-ideologici possano ostacolare (e lo fanno costantemente, ogni giorno) il progresso del sapere umano. Ripeto, Coe su questo aspetto preferisce sorvolare (dopo tutto, le istituzione che avrebbe dovuto attaccare erano le stesse che gli han garantito lo stipendio per tutta la vita...), ma il lettore attento saprà notare allusioni che gli permetteranno di costruire comunque il quadro: Coe non è uno sciocco, e neppure un retrogrado. Ma per un archeologo che ha dovuto operare in aree dominate dagli "squadroni della morte", un certo livello di prudenza può essere stato un elemento piuttosto utile al raggiungimento della tarda età.


Non riesco a trovare controindicazioni alla lettura di questo volume, che è facile da leggere, a tratti divertente, e che insegna un sacco di nozioni che difficilmente si saranno possedute prima della lettura.
O meglio, una controindicazione c'è: chi stesse cercando un libro sulla fine del mondo che a quanto pare avverrà per il fatto che il calendario dei Maya aveva previsto gli anni solo fino al 2012 (dopo, evidentemente, saranno esaurite le prenotazioni), eviti questo libro. Non ne parla, non ne tratta, e soprattutto non spara nessuna bestiata da trasmissione tv.


 
 
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