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Adrian Goldsworthy, La caduta di Roma. La lunga fine di una superpotenza dalla morte di Marco Aurelio fino al 476 d.C., Elliot, Roma 2011 [2009].
 
Copertina di ''La caduta di Roma, di Adrian Goldsworthy.
[Saggio]

Recensione di Giovanni Dall'Orto


L'Impero è colpito ancora

La prima cosa che ho da dire su questo libro è che un editore che chiede 35 euro (mica noccioline!) per un volume non ha il diritto di produrre un oggetto tanto formicolante di refusi e di traduzioni ad mentulam cani.
Le traduttrici non hanno palesemente mai riletto il testo, a cui è stato risparmiato anche l'affronto d'una correzione di bozze, per cui il prodotto è andato direttamente dal traduttore al consumatore. A questo punto però ci si chiede che cosa ci sta a fare l'editore, visto che la cura editoriale (signori della Elliot lo sentite? Lo dice anche il nome stesso!) è compito suo.

Ecco giusto un piccolo florilegio di quanto vi aspetta nel librazzo (570 pagine):

e qui mi fermo, perché credo di aver reso l'idea anche senza annoiare con le perle delle rimanenti 400 pagine, fino al supermostro di p. 374 che dice "Ma gli educati abitanti dell'isola", dove l'originale non intendeva parlare di galateo, bensì degli abitanti che avevano ricevuto un'educazione scolastica, cioè de "gli abitanti colti dell'isola". Ma suppongo che la cultura sia un concetto del tutto estraneo, a questo editore.


Passiamo ora al contenuto.
Il libro mi ha colpito per la sua sua rara gradevolezza di lettura, appaiata a un'impostazione poco rigorosa.
Voglio dire: come può uno storico serio dire che l'impero romano (p. 32) copriva "la maggior parte del mondo allora conosciuto"? In che senso?
Gli indiani non si conoscevano ancora da sé?
E poi, conosciuto da chi? Dai romani? Ma la Cina era conosciutissima, tant'è che gli archeologi ci han trovato monete romane, eppure non faceva parte dell'impero. E già Alessandro Magno aveva raggiunto (e in parte conquistato) l'India, eppure nemmeno l'India faceva parte dell'impero. L'immenso impero partico, la sconfinata Scizia, la Nubia ne erano fuori. La Dacia ne fu parte per un poco, poi ne uscì. La Scozia, l'Irlanda non ci entrarono neppure. Gli Iperborei (scandinavi e baltici) e la Germania ne erano fuori. Eccetera.
L'impero romano raccoglieva quindi, semmai, "la maggior parte delle terre che circondano il Mediterraneo", quelle cioè che i romani consideravano meritevoli della loro (rapace) attenzione. Ma siccome questo autore, come vedremo, sta parlando della nuora perché suocera intenda, vuole scodellare una spiegazione valida per gli imperi mondiali, quindi ha bisogno che i romani fossero un impero mondiale, quindi li "promuove" a questo rango...
Ecco, ragazzi, ci siamo fatti un'idea del metodo di lavoro di Goldsworthy.


Ho controllato in Rete: l'autore è un accademico, quindi dovrebbe sapere come si argomenta un problema storico.
Però non lo sa fare. Il libro pullula di affermazioni apodittiche buttate lì senza fonti. O meglio, citando quelle favorevoli alle proprie tesi, e trascurando quelle sfavorevoli, che non vengono confutate, ma semplicemente ignorate.

Posso anche essere d'accordo con alcune delle tesi argomentate dall'autore, però mi sarei aspettato un trattamento più rispettoso delle fonti e un'attenzione maggiore alla confutazione delle tesi avverse. Invece gran parte del libro funziona con affermazioni del tipo: "si è detto che l'impero partico fu un serio problema per l'impero romano, tuttavia esso non ebbe mai la minima possibilità di prevalere" oppure "la sua potenza è stata decisamente sopravvalutata". Ma che razza di modo di argomentare è? Senza un dato, senza una nota a sostegno della tesi?
Io qui ci vedo una dose di razzismo, visto che alla fine la tesi è che quattro straccioni di barbari non potranno mai mettere in crisi un potente impero, le cui crisi possono quindi essere solo endogene. Può darsi, ma forse sarebbe utile ricordare che gli Unni fecero vedere i sorci verdi anche a cinesi e persiani, e io non me la sentirei di trattare come una comitiva di educande un popolo capace di causare rogne a tre imperi. Sottovalutare le capacità belliche dei "barbari straccioni", come fa qui Goldsworthy, e come è stato fatto nel mondo reale in Afganistan dai suoi compatrioti, ha portato le due più grandi potenza militari del mondo, alleate, a prenderle da un decennio da un esercito di caprai. E per i britannici questa non è neppure la prima volta che accade, in quell'area. Quindi, se tanto mi dà tanto...

Crollano poi al livello del patetico le pagine in cui si parla di cristianesimo, nelle quali l'autore rivela un animo clericale che rende la sua esposizione non solo "di parte" (questo è pur sempre lecito) ma proprio storicamente inverosimile, sfumando nel raccontino edificante.
Non parliamo poi del capitolo sull'"imperatore cristiano" Costantino, che a tratti raggiunge il comico. Sembra uno dei libriccini che mi davano da leggere i salesiani quando avevo dieci anni, con tante croci fiammeggianti nel cielo.


La tesi attorno a cui è costruito il libro è che la caduta dell'impero romano d'Occidente (ma il titolo inglese strizza l'occhio parlando tout-court di "Fall of the West", "Caduta dell'Occidente": capisc'ammè!) fu causata dal progressivo degrado della sua classe dirigente, che trascorse in pratica gli ultimi due secoli in un'incessante guerra civile, nella quale solo un pugno d'imperatori riuscì a morire di vecchiaia o nel proprio letto, mentre tutti gli altri o furono assassinati o morirono in battaglia. Anche perché un imperatore del III secolo non poteva più fidarsi di nessun generale, e doveva fare di persona ciò che Augusto o Tiberio avrebbero fatto per mezzo di legati (compreso il farsi ammazzare prematuramente nella foresta di Teutoburgo). Ciò distolse progressivamente risorse dal contenimento dei barbari, finché il sistema saltò:

Questa tesi mi trova in parte d'accordo, tant'è che m'ero comprato il libro per vedere come fosse argomentata.
E la risposta è: male.
Non solo per i difetti che ho appena elencato, ma anche perché questa spiegazione, se presa da sola, non spiega proprio un bel niente. Se questo degrado ci fu, infatti, esso va spiegato a sua volta. E allora, cosa fu che permise questa degenerazione?
Qui sarebbe stata necessaria un'analisi dei cambiamenti di forza tra classi sociali, specie fra ceto senatorio e ceto equestre, ma ciò è profondamente estraneo al modo di far storia di questo autore, che non tiene in nessun conto le dinamiche di classe, e legge tutto in termini individualistici.
E visto che in sovrappiù l'autore ha escluso a priori l'esistenza di un aumento oggettivo della pressione militare ai confini, alla fine può solo rifugiarsi (come già Indro Montanelli prima di lui) in una soluzione di tipo moralistico: Dunque, la classe dirigente divenne egoista e poco patriottica, e così, paf!, l'impero è caduto. Semplice, no?


A fronte di questi limiti, sono rimasto stupito dalle recensioni entusiastiche ottenute da questo libro su Amazon.uk. Leggendole, mi sembrava che io e i recensori non avessimo neppure letto lo stesso libro.
E in realtà era proprio così: io ho letto un libro su un impero che aveva la capitale a Roma, mentre i lettori inglesi hanno letto un libro che parlava loro di un impero che aveva la capitale a Londra. O a Washington.

Oltre tutto, in queste recensioni, se appena si andava oltre i titoli entusiastici e i profluvi di stelline dei voti, spesso iniziava un lungo elenco di limiti e svarioni del testo, che per lo più mi trovavano concorde. Il che vuol dire che forse Goldsworthy lassù è una star con un suo fan club, da cui viene giudicato più per il valore delle sue performances tv che per la solidità di quanto dice.


Per fortuna, accanto ai limiti ci sono anche pregi.
Questo volume è un buon pamphlet di divulgazione giornalistica, al livello della Storia di Roma di un Indro Montanelli, per capirci. Si legge senza annoiarsi e, fra un pettegolezzo, un'agiografia e un'infilata di svarioni grammaticali si arriva in fondo senza mai sbadigliare. Molti lettori, nelle recensioni della versione originale, sembra che abbiano apprezzato soprattutto questo, il fatto cioè che il libro offre una grande scorrevolezza.

L'autore è particolarmente bravo nel descrivere le biografie delle personalità e gli intrighi di corte, brani vividi che si leggono come pagine di un romanzo.

Insomma, questo lo devo concedere: come testo d'intrattenimento il libro funziona. Si potrebbe trarne un film intitolato I disperati della Via Appia o Mission: Artaxata, o anche: L'Impero è colpito ancora...
Secondo me funzionerebbe. Per come scrive Goldsworthy, George Lucas je fa 'na pippa.


Pròteron ùsteron. Chi ha scritto la prefazione di questo libro? Un luminare della storia?
No: è stato Paul Krugman, economista e vedette massmediologica. E qui tutto quadra.
Goldsworthy non ha scritto un libro di storia, ha scritto un pamphlet politico, sulle tracce di Edward Gibbon, che infatti richiama apertamente all'inizio dell'opera.
Certo, è un pamphlettone di 600 pagine, però sempre un pamphlet resta.

E questo spiega le sue amnesie. In pratica, nessuno si preoccupa di solito se uno studio storico mette in luce lo scontro di classe nel tardo impero romano e il modo in cui la sua non-soluzione può averlo minato dall'interno. (E per inciso: volendo, nulla ostava a che lo facesse anche Goldsworthy: dopo tutto, gli stessi autori cristiani che tanto ama denunciavano la crescente corruzione e ingiustizia del mondo, e gli abusi dei potenti. Il monachesimo nacque come fuga da un mondo che veniva percepito come talmente marcio e ingiusto da essere irriformabile: mònachos è colui che "combatte da solo" (mònos). Tuttavia questo aspetto è completamente taciuto... magari perché avrebbe costretto a porre domande sul fatto che anche il cristianesimo, con questo approccio da letteralmente "salvo me soltanto e che crepi pure il mondo", possa avere contribuito alla "degenerazione morale". E chiudo qui l'inciso).
Quando però "impero romano" diventa - come qui - una metafora di "impero britannico" o "impero americano", allora toccare certi temi diventa automaticamente esplosivo, e tocca inevitabilmente un sacco di nervi scoperti. Meglio quindi sorvolare su certi aspetti, tipo il fatto che il tardo impero romano è uno stato totalitario in cui si è rotto l'"ascensore sociale", per cui la violenza rimane oggettivamente l'unico strumento di ascesa sociale. Scordatevi di trovar traccia di questo tipo di problematiche, qui. Quasi che nella storia di una nazione fossero irrilevanti.

Spiegate o no, però, le amnesie dell'autore alla fine hanno fatto che i dubbi che avevo all'inizio siano rimasti tali anche alla fine del volume. Mah.


Conclusione. Il libro è una lettura amena, si fa gustare, ma ha troppi difetti per essere considerata un'opera storica a pieno titolo.
A quel prezzo, poi, limiti ed errori editoriali sono assolutamente inaccettabili.

Se trovate qualcuno che ve lo presta, o meglio ancora che rapina una libreria per darvelo, dategli pure una guardata, altrimenti a mio parere 35 euro per questa roba sono uno sproposito. Andate nella soffitta della nonna a riesumare il suo Montanelli, e così risparmiate.


 
 
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