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Pinchas Lapide, Predicava nelle loro sinagoghe. Esegesi ebraica dei vangeli, Paideia, Brescia 2001.
 
Copertina di ''Predicava nelle loro sinagoghe'', di Pinchas Lapide.

[Saggio]

Recensione di Giovanni Dall'Orto


Opera minore sull'ebraicità di Gesù, con qualche difetto ma anche con alcuni punti di estremo interesse.

Operina di appena 116 pagine in formato tascabile, quasi "d'occasione", nata ricucendo assieme due o tre conferenze.
Contiene però almeno un paio di nuclei di sicuro interesse, e per male che vada si legge in un pomeriggio, o anche meno.

Lapide era un teologo neotestamentarista israeliano, ebreo praticante, e dedicò gran parte del suo lavoro a un tentativo di riconciliazione fra mondo cristiano e mondo ebraico che partisse dalla ebraicità di Gesù.
Un'ebraicità che non ha mai mancato d'imbarazzare realtà fortemente, spesso violentemente antisemite come le chiese cristiane, che solo la Shoah ha costretto a un riesame di tali pregiudizi.

Lapide, scrivendo quest'opera nel 1980, sfrutta uno spiraglio al dialogo aperto dal Concilio Vaticano II, che i due pontificati integralisti di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno nel frattempo richiuso.
Il suo scritta cita infatti, come controparte teologica cristiana del lavoro di riavvicinamento, teologi come Barth o quelli della "teologia della liberazione" sudamericana, che sono stati completamente ostracizzati negli ultimi decenni, laddove noti antisemiti sono stati nel frattempo elevati agli altari.

Per me che sono ateo questa circostanza è un monito sulla fragilità di qualsiasi pretesa di liberazione basata su un corpus d'idee irrazionali e non tenute né alla coerenza né alla discussioni dei propri princìpi, quali sono le religioni.

Lapide la pensa diversamente da me, e infila pagine su pagine (per me alquanto noiose) sui sublimi principi dell'ebraismo, religione d'amore, pace e comprensione.
Be', questa è sinceramente la parte più debole del libro: se Lapide fosse un cattolico, sarebbe né più né meno che un lungo sermone, e oltre tutto noiosa quanto un sermone non richiesto e non riuscito.
A volte poi questa apologia è decisamente inopportuna, fino a scadere nel ridicolo: qualcuno mi trovi per esempio uno solo fra i quindici milioni di palestinesi al mondo che concordi con la lunga tirata (p. 100) sull'ebraismo come la religione che più di qualsiasi altra protegge, apprezza e aiuta lo straniero... Sì, certo...


La parte positiva del libro, che gli ha meritato le quattro stelle del mio giudizio, è comunque un'altra.
Da un lato consiste nella parte introduttiva (pp. 14-25), in cui viene spiegato come l'esegesi ebraica dei vangeli sia necessaria per capire il senso di veri e propri errori di traduzione commessi dagli evangelisti relativamente ai modi di dire aramaici del primo secolo, non compresi da chi aveva il greco come lingua madre.
A parte le celebri "gomene" che diventano "cammelli" (e non passano dalla cruna di un ago) qui abbiamo "esseni" che diventano "lebbrosi", "zeloti" che diventano "ladroni", "piaceri della carne" che diventano "desideri del resto", simbologie numeriche oggi non più comprese (12 apostoli le tribù d'Israele, e 70 discepoli come tutte le nazioni pagane) eccetera eccetera.
Su questo argomento Lapide ha addirittura scritto una monografia: Bibbia tradotta, Bibbia tradita.

Un altro passo molto felice è nella discussione di come il contesto del "non detto" possa e debba essere tenuto in conto se si vuole capire il senso originario dei brani evangelici.
Se noi (l'esempio che segue è mio) leggessimo del filosofo comunista Antonio Gramsci fra duemila anni, e trovassimo nei suoi scritti un brano in cui si parla di conflitto di classe, non sarebbe necessario che lui specificasse che nel parlarne auspica la vittoria del proletariato e non quella della borghesia. Tale conclusione è implicita nel contesto ideale, o se preferiamo ideologico, in cui scrive.

Lo stesso vale per Gesù. Lapide lo dimostra con l'episodio del tributo a Cesare (l'intero capitolo 2, pp. 41-65), facendo notare una serie di dettagli che mostrano come la posizione di Gesù non sia affatto di equidistanza, bensì pienamente schierata e inserita nel movimento ideologico (ahimè, clericale) che voleva che a Dio e a nessun altro spettasse il governo di Israele.
Quando si tratta di dare "a Dio quel che è di Dio", dunque, non si tratta di limitare la missione di Gesù ai meri aspetti religiosi, come s'intende oggi, bensì l'esatto contrario. A Cesare vada pure il governo dell'impero romano (gli spetta) ma a Dio vada il governo di Israele, che è sua e solo sua.

L'analisi di Lapide arriva a dettagli di grande finezza, come per esempio laddove fa notare come Gesù, quando si discute dei denari, abbia bisogno di chiedere se qualcuno gliene fa vedere uno. Questo per ostentare il fatto che non solo lui non porta addosso nessuna di tale blasfeme monete con immagini pagane, ma neppure sa come siano fatti. Palesemente, un'ostentazione paradossale, però dal significato politico molto molto chiaro.

Anche l'affermazione secondo cui il Regno che Gesù vuole instaurare "non è di questo mondo", contestualizzata, non significa che sia un Regno puramente spirituale, bensì l'esatto opposto: esso è infatti la restaurazione della teocrazia in Israele, contrapposta a qualsiasi dominio "pagano" e "mondano" e soprattutto "laico".

Il Gesù che emerge da questa analisi è certamente più contraddittorio di quello che conosciamo, ma infinitamente più umano, e soprattutto storicamente comprensibile nel contesto della sua epoca.


Altrettanto interessante la discussione (nell'intero capitolo 3, pp. 67-89) sulla questione della raccolta delle spighe di Sabato, che dimostra come il parere di Gesù, lungi dall'essere "di rottura", si inserisca nell'ambito d'un dibattito che nel mondo ebraico coinvolse per secoli decine d'altri esegeti, che diedero risposte perfettamente in linea con quella di Gesù. Il cui pensiero, quindi, torna a far parte e pieno titolo d'un dibattito e d'una cultura ben determinati, e non nasce più dal nulla, come invece tende a credere certa esegesi cristiana.

Certo, anche questo capitolo qualche difetto lo ha. Nella sua passione esplicativa, che è quella d'un teologo e non d'uno storico o d'un filologo, Lapide utilizza citazioni e paralleli che spaziano dall'epoca precedente quella di Gesù - cosa lecita - fino a testi talmudici (cosa lecita fino a un certo punto, dato che l'elaborazione del Talmud iniziò sì al tempo di Gesù, ma proseguì per molti secoli dopo la sua morte), e addirittura alla Cabbala medievale, cosa totalmente inaccettabile.
Questo modo di agire funziona solo se si accetta il dogma ideologico-religioso secondo cui l'ebraismo è un corpus di dottrine unico, compatto, coerente, e soprattutto immutabile, cosa che non è mai stato -- come non è mai stata non solo nessuna religione, ma nessuna filosofia umana.

Se può essere utile da un punto di vista teologico fare questi azzardati paralleli con testi scritti mille anni dopo Gesù, per chiarire lo "spirito ebraico" del suo insegnamento, da un punto di vista storico ciò è totalmente inaccettabile.
Ogni pensatore si capisce sulla base della cultura del momento storico in cui vive, non in base a un presunto "spirito" della filosofia a cui dichiara di appartenere.


Come si vede, in conclusione, questa è un'opera con molte luci ma anche molte ombre.
Leggendola, si capisce meglio il motivo per cui i più avanzati storici dell'ebraismo degli ultimi decenni abbiano insistito sul fatto che non è lecito fare storia partendo da un'ottica teologica. Perché, semplicemente, si distorce la storia, facendo così.

In attesa di riuscire a leggere Bibbia tradotta, Bibbia tradita (procurarselo sembra essere tutt'altro che facile), comunque, questo "aperitivo" mi fa sperare che non ne resterò deluso, dopo tutto.
Se si saltano nei loro libri tutte le pagine in cui parlando i teologia, perfino i teologi risultano sopportabili...


 
 
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