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Don Tapscott & Anthony D. Williams, Wikinomics 2.0, Rizzoli 2010 [2006].
 
Copertina di ''Wikinomics 2.0'', di Don Tapscot & Anthony D. Williams.

[Saggi]

Recensione di Giovanni Dall'Orto


Ottimo riassunto di tesi altrui, ma va a gambe all'aria quando prova a metterci di suo.

Il termine "wikinomics" (wikinomìa"), che indica l'attività economica basata sul concetto di Wiki (cooperazione di massa e gratuità) è stato coniato da questo libro, del 2006.
Comprandolo mi aspettavo, perciò, di leggere un saggio sul difficile connubio fra economia tradizionale (del profitto) ed "economia del dono".
Con mia sorpresa, iniziando la lettura ho scoperto però che questo volume parla di tutto fuorché di wikinomics.

La lettura (che non sono riuscito a terminare), si è rivelata una delusione, nonostante l'entusiasmo di molti recensori e lettori, che era stato lo stimolo che mi ha spinto all'acquisto del volume.

Dal punto di vista del tema presunto dell'opera, dice molto di più, e con lucidità mentale decisamente superiore, Chris Anderson nel suo Gratis, che riesce a darci una delineazione preliminare dell'"economia del gratis" che egli stesso ammette essere incompleta e semplicemente abbozzata, ma almeno centra in pieno il tema trattato, dimostrando competenza nell'analisi e (a mio parere) anche una buona dose di lungimiranza.

Viceversa, Wikinomics è un'opera incredibilmente quanto inutilmente verbosa (500 pagine, ne sarebbe bastata la metà) e che dice un sacco di cose che sono vere e non nuove, ed un sacco di altre che sono nuove ma non sono, semplicemente, vere.
Gli autori sono infatti troppo impregnati del modo di ragionare economico di prima dello scoppio della crisi economica mondiale, al punto che questo volume mi ricorda molto, specie per il tono ipereccitato da scrittore "fatto" di cocaina o di gas esilarante, uno dei tanti volumi di economia prodotti all'epoca della bolla delle "dot com", e di cui oggi nessuno serba più la minima memoria.
La sua utilità, quindi, mi sfugge.


L'opera è divisa fondamentalmente in due parti.
Nella prima, dopo una smisurata introduzione al tema, del tutto inutile, si affronta il mondo della cooperazione di massa gratuita via Rete. Intelligenza collettiva, generazione di prosumers, Wikipedia, Linux, Myspace, Facebook, peer production, il problema dell'hacking e della pirateria online...
Il riassunto è diligente ed anche esaustivo, direi. Se non avete mai letto nessun altro libro sulla cooperazione online (al contrario di me), direi che potreste leggere questa parte con molto gusto ed interesse: la sintesi operata dagli autori non dice nulla di nuovo ma è decisamente esaustiva. Decisamente un buon punto di partenza, quindi, che per chi fosse digiuno della materia può addirittura risultare esaltante.

Si noti peraltro che questa prima parte del saggio riguarda tutta e soltanto il mondo dei bits e dei pixels, ovvero quella Rete sui quali la "economia del dono" è nata. E questo ha la sua importanza.
I guai arrivano infatti nella seconda parte, laddove gli autori cercano di applicare i princìpi nati e sperimentati nel mondo dei bits al mondo degli atomi, alla produzione materiale.


Il loro sforzo è dimostrare che la wikinomics si può applicare con ottimi risultati anche al mondo degli atomi, ed anzi che essa sia un motore di sviluppo capace di generare ottimi profitti per i capitalisti e gli azionisti.
Ebbene, non è vero. E non per astruse motivazioni teoriche, ma per il fatto più banale che ciò di cui trattano gli autori da questo punto in poi non è più la wikinomics, ma la collaborazione di massa, quella tradizionale, sia pure facilitata e velocizzata al massimo dall'esistenza della Rete.
Il fatto che migliaia di persone cooperino per la costruzione di un oggetto, infatti, non è wikinomics: già le piramidi egizie sono state costruite con questo metodo. La Rete, in questo metodo di costruzione, c'entra solo perché permette di far collaborare persone distanti migliaia di chilometri, ma anche qui c'erano già riuscite da mo' la posta prima e il telefono e il fax poi, e non si trattava di wikinomics nemmeno in questo caso.

La novità è che oggi la comunicazione orizzontale è enormemente facilitata dalla Rete, a scapito di quella verticale top-down... ma il punto è che anche quella è sempre esistita, dietro le spalle dell'arroganza e spesso l'incompetenza dei capi. Solo che nessuno ha mai riconosciuto che il successo di un'azienda si basa anche sulla capacità dei suoi lavoratori: il merito è sempre stato preso al 101% dai suoi manager e dai suoi padroni. I lavoratori erano solo pezzi di ricambio.
La novità oggi è quindi solo che con la Rete, che lascia traccia di tutto, è più facile dimostrare che non è così (e che non è mai stato così nella storia umana).


Gli autori si spremono le meningi per cercare di capire come mettere a profitto la disponibilità di milioni di persone a cooperare pur non avendo rapporti di subordinazione lavorativa, ma quello che inventano è solo la globalizzazione della concorrenza dei posti di lavoro, cioè il precariato di massa (e può essere utile, a questo punto, leggersi o rileggersi No logo di Naomi Klein). Un fenomeno che giudicano con un'ilarità e una felicità che contrasta già, solo quattro anni dopo la scrittura del libro, con l'impegno preso da Barack Obama a creare barriere per tutelare i posti di lavoro statunitensi, e a porre limiti alla libertà di manovra della globalizzazione...

Ad esempio, a pagina 33 leggiamo che

Una prospettiva, immagino, che vi riempirà di elettrizzante eccitazione!

In effetti,

Vi giuro che questo non è stato scritto con intenti sarcastici. Lavorare per un call center di un ristorante take-away è, secondo gli autori, "il sogno dei genitori" di un laureato multilingue (per forza di cose, trattandosi di un ristorante posto in un altro Stato) indiano.

Per farla breve, non passa molto da quando si entra infine nel mondo della produzione materiale che la wikinomia diventa semplice e banale outsourcing, subappalto, globalizzazione. Le ben dieci pagine (380-391) dedicate a descrivere con entusiasmo come la Boeing, da costruttrice di aerei, sia diventata assemblatrice di parti fisicamente costruite in giro per il mondo da centinaia di aziende subappaltatrici, che spesso le progettano in proprio, sono un vero monumento alla miopia e stupidità di cui solo gli economisti possono essere capaci.
Perché se vent'anni fa poteva essere eccitante immaginare un mondo in cui i profitti salivano perché si licenziavano costosi operai americani (e italiani) e si spostava il lavoro in Cina, dove grazie al "comunismo" gli operai lavorano in condizioni di semischiavitù, oggi che questo mondo è stato ormai costruito i guai che ha combinato sono evidenti a tutti. Gli Usa non riescono più a ripagare un mostruoso e sempre crescente debito con la Cina, e i suoi lavoratori licenziati non possono più permettersi di pagare i beni venduti a prezzi che non siano cinesi.
Però la metastasi della proprietà intellettuale mantiene a prezzi (monopolistici) assurdamente elevati alcuni beni che, non godendo della concorrenza cinese e indiana, semplicemente mandano in rovina gli acquirenti. Le motivazioni principali per cui gli statunitensi hanno ipotecato la casa dando il via alla celebre "bolla dei mutui subprime" sono: pagare le spese sanitarie (le più costose al mondo) e pagare gli studi ai figli... Non certo andarsene alle Hawaii a spassarsela.


Il caos politico ed economico a cui ha dato vita questo sistema di cose, e questa organizzazione del lavoro, è ormai, credo, sotto gli occhi di tutti. Come è ormai chiaro a tutti che l'outsourcing trasferisce know how e competenze ad aziende che prima o poi si chiederanno perché mai lavorare in subappalto, quando possono mettersi sul mercato da sole.
Il fatto che la mitica divisione computer dell'Ibm sia stata comprata da una ditta cinese già sua subappaltatrice manda o no un messaggio? Secondo le autorità Usa, che hanno già proibito "per motivi strategici" la vendita a ditte cinesi di porti e aziende petrolifere, decisamente sì.
Ma di tutto ciò non v'è traccia in questo volume. La globalizzazione offre solo occasioni. Chi non vi si adatterà, è destinato a scomparire. Le aziende devono imparare a cooperare in Rete. Eccetera, per decine e decine di pagine e di esempi.

Data la prospettiva degli autori, che è quella degli economisti neoliberisti che hanno causato l'attuale crisi economica mondiale, non stupisce vedere come abbiano centrato un tema cruciale per l'economia oggi, mancando poi di definirne i limiti e la portata.
La legislazione sulla "proprietà intellettuale" è diventata talmente soffocante e parassitaria da costituire ormai un oggettivo ostacolo alla ricerca e allo sviluppo economico. Troppi parassiti succhiano sangue dalla "catena del valore" per non fare diventare anemico il corpo dell'economia.
Tapscott e Williams lo sanno, come dimostra l'elenco, a p. 75, delle imprese che sul web hanno fallito perché hanno insistito ad un approccio "proprietario":

Peccato però che poi non sappiano trarre le debite conclusioni dall'osservazione.
Linux, l'open source, la wikinomics tutta, sono nati come risposta politica e polemica contro una società in cui anche per potere pigiare un tasto di una tastiera occorreva pagare il detentore di un brevetto.
La collaborazione fra aziende farmaceutiche per mettere in comune un database di dati brevettati, esaltata dagli autori del libro come un trionfo della nuova economia del wiki, non è altro che un banale ritorno al passato, quando non era consentito brevettare pure e semplici nozioni (come la sequenza di nucleotidi di un gene), ed in cui tutti potevano fare liberamente uso delle nozioni che erano patrimonio comune della società.
Qui non siamo di fronte al trionfo della wikinomics, ma a quella che è stata definita "La tragedia degli anti-commons", cioè al fallimento di una concezione del sapere come realtà in cui tutto può essere reso proprietà privata, tutto può essere recintato, tutto può essere brevettato, al punto che nessuno riesce più ad andare fisicamente nella sua proprietà, perché anche lo spazio delle strade è stato recintato e richiede il pagamento di un pedaggio.

Le industrie cinesi che gli autori esaltano (pp. 371-380) come geniali, per esempio, perché sono capaci di consorziarsi per produrre una motocicletta dal nulla suddividendo il lavoro fra mille piccoli laboratori, riescono nel compito anche perché è più facile farsi beffe dei brevetti in questo modo che creando una grande azienda (e il fatto che nel titolo del paragrafo si parli di una "gang" invece che di un "consorzio" forse significa che gli autori lo sanno). Provate voi a fare causa e centinaia di piccoli laboratori sparpagliati sui monti di qualche oscura provincia cinese. Non è certo come fare causa alla Honda...

La "saggezza dello stormo" risiede in effetti in primis nel fatto di essere uno stormo. Gli stormi esistono perché la moltiplicazione di bersagli che si muovono tutti per traiettorie diverse confonde i predatori, e rende loro più difficile concentrarsi su uno solo ed acchiapparlo.
La cooperazione industriale delle fabbrichette cinesi funziona alla grande perché permette loro, come stormo, di fare pernacchie ai brevetti industriali e alla "proprietà intellettuale" tanto cara al capitalismo. Non è un mistero per nessuno, a iniziare da chi quei brevetti li detiene... ma con l'eccezione degli economisti entusiasti della globalizzazione e della delocalizzazione in Cina o Vietnam.


Fra tali eccezioni stanno anche Tapscott e Williams, che ovviamente sono ciechi e sordi a queste tematiche, bubbole per sovversivi. Loro si pongono il problema di come si possa sfruttare economicamente per far profitti la balordaggine di milioni di persone disposte a lavorare gratis, o per un pugno di briciole di pane.

La risposta è che non si può. L'economia del dono esiste come alternativa all'economia del profitto. Ha logiche differenti, che seguono strade diverse.
Non si può prendere i wikipediani e farli lavorare gratis per l'Encyclopaedia Britannica, a meno che il risultato finale non sia a sua volta gratuito. Non si capisce per quale motivo qualcuno dovrebbe lavorare gratis per qualcosa finalizzato esclusivamente a far guadagnare qualcun altro.

Il fatto è che Tapscott e Williams non capiscono perché mai qualcuno dovrebbe fare qualsiasi cosa per una motivazione diversa dal profitto personale, che nella loro visione del mondo è la sola motivazione che metta in moto gli esseri umani (come da dogmi della religione liberista).

Non capendo questa motivazione, non capiscono neppure come fare ad assecondarla e sfruttarla. Perché in effetti trarre profitto dall'economia del dono si può. Tutti potete, se volete, vendere CD con l'intera Wikipedia. O con Linux. La sola cosa che dovete fare è trovare qualcuno disposto a pagarvi per qualcosa che può avere gratis dalla Rete. Ma se lo trovate, potete farlo.
Ed il paradosso è che il caso si può dare. A Steven Jobs è attribuita una dichiarazione (non so se vera o no, ma "se non è vera  ben trovata") che dice: "I clienti di Itunes sono persone il cui tempo vale di più di 99 centesimi". Osservazione corretta. (Anche se i suoi iPods, che contengono l'equivalente di 1000 CD come niente, cioè come dire 10.000 canzoni, non sarebbero venduti se la gente pensasse davvero di doverli riempire con 10.000 downloads a 99 centesimi l'uno (= 9.900 dollari...). Ma questo è un altro discorso).


In conclusione, questo è un libro già vecchio. Il modello economico che propugna - la globalizzazione senza barriere - è al momento attuale al centro di una tempesta che non è destinata a calare ma al contrario ad accrescersi.

Se una cosa dimostra bene è solo che la wikinomics, nata sulla Rete, funziona alla grande con i beni immateriali, mentre il tentativo di applicarla al di fuori di questo àmbito cozza frontalmente con l'attuale organizzazione economica.
Per funzionare, dovrebbe come minimo poter operare in una società in cui non esistessero affatto i brevetti. Figuriamoci!


Ciò di cui parla il libro, ma senza saperlo, è il bisogno ormai urgente se non vitale di superare una realtà in cui tutto è stato privatizzato, creando milioni di minuscoli (o non minuscoli) monopolii e di rendite di posizione, ognuna della quali è un oggettivo ostacolo al progresso, se non addirittura al libero funzionamento di quel mercato tanto caro ai capitalisti.

Gli autori sono entusiasti di fronte alla scoperta del fatto che cooperando gli esseri umani producono meglio e di più che facendosi la guerra, cioè concorrenza. Solo che per le loro premesse ideologiche non possono mettere le cose in questi termini.
Quindi attribuiscono ad un banale mezzo di comunicazione, la Rete, presunte virtù che sono invece intrinseche al metodo cooperativo. Che funzionava già ai tempi dei piccioni viaggiatori. E che solo l'ottusità di ideologie economiche miopi aveva dichiarato morto e sepolto.

Bentornata, cooperazione di massa. Lasciaci solo un attimo di tempo per seppellire la competizione individuale selvaggia, e ti ridiamo subito il tuo posto di motore della Storia...


 
 
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