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Thomas Thompson, The mythic past. Biblical archaeology and the myth of Israel (edito anche col titolo: The Bible in history: how writers create a past), Basic books, New York 2000 [1997] (ristampa anastatica: 2011).
 
Copertina di  ''The mythic past'', di Thomas Thompson.

[Saggio]

Recensione di Giovanni Dall'Orto


Una buona sintesi delle tesi della "Scuola di Copenaghen" di esegesi biblica. Non priva di difetti.

Per molto tempo ho letto, a proposito della cosiddetta "Scuola di Copenaghen" di studi biblici, detta anche "scuola minimalista", che essa sostiene la sulfurea tesi della totale letterarietà del testo biblico (nel senso che Bibbia e Odissea sono esattamente sullo stesso piano: esistette sì Troia, ma mai nei termini descritti da Omero, esistette l'Israele biblico, ma mai nei termini raccontati dalla Bibbia...).

A lungo ho cercato una qualsiasi delle loro opere, che però sembravano o costare sette stipendi o essere esaurite.
Finalmente, Amazon.co.uk ha avuto la bella idea di proporne reprint digitali, permettendomi così d'abbrancare una copia del presente libro senza dovermi vendere schiavo a una miniera di sale... (nonché di stupirmi della sgradevole apparenza "piumosa" dei caratteri della ristampa digitale: se sono davvero questi i risultati della "Rivoluzione digitale", dov'è che ci si arruola per la Vandea?).

Lo inizio a leggere e... boh. Lo zolfo non ce lo trovo: forse sta nel naso di chi ce lo vuole annusare, ma io sinceramente tutto 'sto scandalo non ce l'ho trovato.


Ora, che l'intuizione centrale di questa scuola fosse corretta, lo dimostrano i risultati di cinquant'anni d'archeologia israeliana, che nonostante sforzi e proclami contrari non han trovato la minima traccia dell'Israele pre-esilico quale è raccontato dalla Bibbia, e in buona parte neppure di quello post-esilico.
Davide e Priamo, Salomone ed Agamennone, Abramo ed Enea, Isacco o Didone, sono effettivamente sullo stesso piano: eroi e re mitici, fondatori di nazioni e imperi in qualche modo partecipi del Divino, e non esseri umani veri e propri.

La Bibbia stessa, afferma Thompson, è una creazione ellenistica: i più antichi manoscritti biblici, quelli del Qumram (sec. II/I a.C.), ci mostrano un cànone (e un testo!) ancora in fase di formazione e cambiamento (il testo masoretico ebraico viene codificato solo nel primo secolo DOPO Cristo). Il Sitz in Leben dei testi biblici ci àncora nella Palestina ellenistica, e non in quella dei (presunti) Patriarchi dell'Età del Bronzo.

Assolutamente meravigliose ho trovato le due umili paginette (73-75) che mostrano come la cronologia della Genesi proietti all'indietro un "Grande Anno" di 4000 anni a partire dalla data del 164 a.C., anno della ridedicazione del Tempio da parte dei Maccabei, e quindi data di un "nuovo inizio della Storia".
È semplicemente incredibile vedere come, se si ragiona all'indietro a partire da quella data, una quantità impressionante di date bibliche si dispongano su una scala con distanze simboliche di 40, 80 o 100 anni. Il che implica non che la Genesi sia fisicamente di epoca asmonaica, ma che la cronologia della Genesi sia stata riorganizzata da un redattore dopo il 164 a.C., sì. Dunque, la data di "chiusura" di questo testo biblico (e quindi di tutta la Bibbia) è molto, molto più tarda di quanto si pensi normalmente. E le preoccupazioni espresse dai redattori, di conseguenza, molto più vicine al periodo ellenistico che all'Età del Ferro.

Da queste premesse deve partire lo storico nella sua disanima di questi testi, che non descrivono l'Israele del 1200 a.C. più di quanto l'Eneide descriva Troia, o anche solo la Roma dell'VIII secolo a.C., ma solo una sua ricostruzione letteraria.

La Bibbia contiene sì materiali d'epoca precedente, anche di molti secoli, però la veste definitiva in cui essi ci sono arrivati, e quindi la visione del mondo che alla fine esprimono, sono quelle dell'epoca ellenistica, e non quella del secolo in cui furono scritti.

A ciò va aggiunto il fatto che tutte le figure bibliche quali le conosciamo oggi sono figure letterarie. Noi oggi possediamo un "Re Davide" così come possediamo un "Re Artù", se poi dietro l'uno o dietro l'altro ci sia stata una qualche figura storica è cosa che si può anche indagare (e infatti lo si fa, per entrambi), ma solo per trovarsi in mano un certo tal capobanda Davide o un certo tal capotribù britanno Artù che non avranno nessuno dei tratti che riconosciamo ai due re che conosciamo sotto questo nome. Nomina nuda tenemus.


Ecco, ho provato a riassumere alcuni dei punti "scandalosi" sostenuti in questo volume, ma più che di tesi diabolicamente eversive mi pare si tratti semplicemente di banali ipotesi accademiche, per quanto violentemente combattute (specie dai teologi delle varie Chiese e dai politici sionisti) che non sono più ostracizzate nel modo in cui lo fu Thompson, quando se ne fece il primo paladino negli anni Settanta. Fanno ormai parte del dibattito scientifico (sia pure, lo ribadisco, in un ruolo esposto a pesantissime critiche e attacchi polemici. Ma questo è il destino di qualsiasi tesi accademica "di rottura").

Ciò detto, non posso negare che il riassunto delle evidenze archeologiche su cui si basa la messa in dubbio della narrazione biblica, fornito nella seconda parte del libro, resti molto interessante.
Per fare un esempio fra tanti, in base alle ricerche archeologiche il presunto impero di Davide e Salomone ("dall'Egitto all'Eufrate") non trova proprio spazio in un'epoca (XI/X secolo a.C.) in cui l'altopiano di Giuda poteva nutrire, a causa d'una gravissima siccità durata un secolo e mezzo, non più di un paio di migliaia di persone al massimo. Sparse per "alcune decine" di villaggi, fra i quali Gerusalemme, che quindi non poteva certo essere una "città": tale diventò solo nel cinquantennio precedente la conquista e distruzione babilonese, arrivando a contare circa 25.000 abitanti solo grazie alla precedente distruzione assira della grande concorrente Lachish.
Non solo quindi non esiste alcuna evidenza archeologica di tale impero (palazzi, fortezze, iscrizioni eccetera.. niente), ma non v'è traccia neppure della popolazione da cui avrebbero dovuto essere arruolati e mantenuti i suoi possenti eserciti.

Thompson sostiene che prima dell'epoca ellenistica non ci fu mai un regno d'Israele unito, e tanto meno un impero: al massimo piccoli potentati locali, protettorati degli imperi circonvicini, sotto dinastie locali quali "Il casato di Omri" in Israele e "Il casato di Davide" in Giuda. Thompson argomenta bene questo punto con un'affascinante immersione nella Grande Politica internazionale dell'Età del Bronzo, inquadrando la sorte della piccola striscia di terra palestinese nella storia delle lotte per il controllo dei traffici, combattute tra gli imperi ittita, egizio e mesopotamico.

Fu solo in avanzata fase post-esilica che gli intellettuali ebrei, imbevuti di cultura ellenistica, risistemarono ed armonizzarono, con un pesante lavoro di editing, il proprio passato.
In questa ricostruzione inserirono il mito della "conquista di Canaan" (del quale non esiste la minima traccia archeologica), dei patriarchi (gli eroi eponimi), dell'impero salomonico (che altro non è se la proiezione nel passato della monarchia asmonaica alla ricerca di "radici" con cui legittimarsi come "restaurazione", e non come la "rottura" e vera e propria "usurpazione", quale al contrario fu). Ed altre cose ancora.

Ripeto: questa parte storica, che copre all'incirca la prima metà del volume, è molto intrigante, specie per chi non sia mai venuto in contatto con le provocatorie tesi di questa scuola di pensiero. Di sicuro offre mille spunti di ragionamento e di pensiero.


Tutto ciò premesso, aggiungo pure che ho provato molto disagio di fronte a un testo che espone in modo apodittico tutta questa ricostruzione, dato che per meglio rivolgersi al grande pubblico l'editore ha totalmente eliminato le note a piè di pagina!
Il che vuol dire che ci si deve fidare di Thompson, sulla sua parola. Un po' poco! Il detto di Carl Sagan, "affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie", è valido anche in questo settore...

Certo, è indubbio che una persona come Thompson, che ha dovuto lottare per "bucare" la cappa d'ostracismo che accolse il suo lavoro fin dalle origini, debba avere avuto un carattere molto forte e una grande fiducia nel proprio lavoro -- altrimenti sarebbe stato annientato già alla partenza.

Ciò però non implica che sia necessario non citare mai le opinioni di nessun altro, come Thompson fa. La frase "Come afferma Tizio", normale nelle discussioni accademiche, nelle quali conta far vedere che la propria opinione è condivisa da altri, non appare mai. Ed io credo che sia questo l'elemento che mi ha provocato il maggior disagio nella lettura di questo testo. Thompson giganteggia... ma al centro di un deserto intellettuale.

Diciamo in altre parole che leggendo ho trovato plausibile l'80% delle tesi che Thompson sostiene. Ma che non ho affatto chiaro se oltre ad essere plausibili siano anche fondate.
Se mi bastasse la parola di chi scrive per credere, allora farei prima a credere direttamente alla Bibbia e morta lì.
Questo è un limite notevole.

Da questo punto di vista risulta allora più utile un testo molto meno radicale come Le tracce di Mosè di Israel Finkelstein e Neil Silberman, che come archeologi biblici non hanno molto interesse a mettere in dubbio la fondatezza della tradizione che sono pagati per esaminare, e sono quindi molto più moderati nel loro approccio (a metà strada fra quello "minimalista" e quello "massimalista": per questo libro dopo il periodo esilico la Bibbia diventa improvvisamente un testo storico credibile, mentre prima di allora non lo è), ma che fonda le proprie affermazioni sulla citazione di altri studiosi e di saggi accademici. Rendendo chiaro, almeno qui, perché il libro dica quel che dice.


Un ulteriore difetto che attribuisco a Thompson è la disinvoltura con cui questo libro troppo spesso, nella terza parte, si mette a recensire la Bibbia come se fosse una raccolta di poesie o di novelle, segnalando magari il carattere "palesemente ironico ed umoristico" di passi in cui io come lettore proprio non vedo il minimo umorismo (se l'autore ce lo vede, me lo deve spiegare, e non limitarsi a dire che "è palese").

Il difetto è accentuato dalla prosa cementizia di bla-bla accademico in cui Thompson adora ammantare (esclusivamente) le sue recensioni:

Dopo una decina di pagine così, si è pronti per addormentarsi. Senza pillole.
Per fortuna fino alla seconda parte l'autore aveva usato un linguaggio molto più piano, altrimenti non sarei mai riuscito ad arrivare fin lì.
Ma terminare il libro quando inizia la parte conclusiva di "critica letteraria" diventa un'impresa: per me la noia di questa parte è stata scoraggiante.


Per concludere, l'approccio di Thompson mi lascia perplesso per  un'ultima contraddizione.
Anche se non è un libro di storia, come non è, la Bibbia è pur sempre un documento storico. E come tale, merita d'essere trattata.
Dopo tutto, anche il Giulio Cesare di cui leggiamo è solo una figura letteraria (in parte costruita da lui stesso): anche nel suo caso nomina nuda tenemus.
Eppure da qui a dire che Giulio Cesare fu "un personaggio letterario", ce ne corre: andiamoci piano con gli entusiasmi postmodernisti...


 
 
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