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Michael Crichton, Il terminale uomo, Garzanti, 2006 [1972].

Copertina di ''Il terminale uomo''.

[Romanzo di fantascienza]

Recensione di Giovanni Dall'Orto
 


Un libro di fantascienza (del 1972) ottimo, ma ormai superato dal progresso.

Peccato non averlo letto nel 1972, quando usci, questo bel romanzo di fantascienza. Per l'epoca doveva essere avveniristico e visionario. Ma trattando del possibile collegamento del cervello umano a un processore di computer, i decenni trascorsi lo hanno reso tanto obsoleto da farlo risultare a tratti addirittura comico.

La vicenda si svolge infatti in un ospedale dove i medici hanno fisicamente bisogno di cercare un telefono fisso per ricevere chiamate, e non esiste neppure l'ombra di personal computers.
Il computer che dirige l'ospedale è ancora un gigantesco mainframe IBM, trattato quasi come una divinità, tanto ingombrante da avere bisogno d'una stanza tutta per sé... Sì, una stanza per un computer! Ah, per inserire i dati nel bestione gli smanettoni usano... nastro perforato... :-D

Lo stesso titolo e lo stesso tema del libro erano meglio comprensibili in un'epoca in cui solo pochissime istituzioni molto ricche potevano permettersi UN computer, al quale si accedeva da terminali che ne ottimizzavano il costosissimo tempo collegandosi alternativamente, sfruttando gli intervalli di digitazione delle lentissime dita umane... Il parallelo con l'essere umano diventato un "terminale" di un computer (oggi però diremmo "una periferica") era quindi probabilmente più immediato, all'epoca.


Come negli altri romanzi di Crichton (o almeno in quelli più celebri, a iniziare da Jurassic Park) la narrazione ruota attorno ai limiti della scienza, o per meglio dire ai danni che la scienza può fare quando non sia tenuta a bada da salde considerazioni morali.

Non sono affatto certo del fatto che questa condivisibile prudenza nascesse da un'ottica "di sinistra", nonostante il fatto che nei romanzi di questo scrittore la motivazione che fa generar mostri dal sonno della Ragione (scientifica) sia sempre l'avidità - di guadagno, di potere, di successo . Un'avidità che sistematicamente rende ciechi gli scienziati e i loro finanziatori nei confronti del principio di precauzione, che almeno un personaggio per romanzo si preoccupa sempre d'incarnare.

In questo romanzo non è chiaro per esempio fino a quale punto lo scrittore la pensi allo stesso modo di uno dei protagonisti, convinto del fatto che tutti i comportamenti criminali derivino da scompensi biologici del sistema nervoso, e che l'"ambiente criminogeno" sia una fola.
Forse tutto sommato no, l'autore non la pensa così, ma diciamo che non è molto interessato a smentire questo punto di vista. Il suo, di punto di vista, è solo che sia immorale e pericoloso manipolare il cervello umano con operazioni chirurgiche, sia pure allo scopo di cercare di guarire i pazienti da impulsi dannosi, come quelli omicidi.

Considerando quanti danni devastanti ha fatto la neurochirurgia in questo campo, la prudenza è sempre sacrosanta.
Eppure in questo romanzo non si trova traccia di tutto il dibattito che ferveva, negli anni in cui fu scritto, nel campo dell'anti-psichiatria, che approcciava la "malattia mentale" come sintomo frequente nonché meccanismo degenerato di comunicazione di un disagio esistenziale (si pensi al solo Thomas Szasz).

Dunque, alla fin fine, il messaggio del volume è che chi pasticcia col cervello umano lo fa a tutto rischio e pericolo... del paziente. Messaggio condivisibile, però oggi ormai già arrivato forte e chiaro nelle nostre coscienze, al punto da suonare spaventosamente banale.


Come se non bastasse, fatico a vedere nello scatolone che sto usando per scrivere questa recensione, che di certo è molto più potente del computer dell'ospedale del romanzo, un aspirante "mostro di Frankenstein" pronto a sfuggire al mio controllo e rendermi schiavo...

Oltre a questo, il tema dell'interfacciamento (parola che non esisteva nemmeno in italiano all'epoca della traduzione, al punto che il traduttore la lascia in inglese) fra cervello umano e computer, sarebbe ancora una sotto-trama intrigante... se il processore di cui si parla non ci apparisse ormai come poco più di una caffettiera a vapore. Ben altro è stato scritto nei decenni seguenti sul tema, e con ben altra forza...


Salva il romanzo la solita capacità narrativa di Crichton, che ha ben confezionato il prodotto, con professionalità a tratti decisamente un po' seriale, fino alla prevedibilità, ma di sicuro effetto.
Inoltre, essendo questo uno dei volumi che si collocano più verso la parte iniziale della carriera di Crichton che verso quella finale, è ragionevolmente breve, e si legge in poche ore.

Per chi cerca poche ore d'intrattenimento con un romanzo scritto con competenza, senza badare al fatto che le "visioni del futuro" che propone risalgono ormai ad un passato troppo lontano, questo è un libro ok, anche per il prezzo tutto sommato ragionevole (8 euro per 300 pagine circa).

Non lo consiglierei però affatto come romanzo di approccio a Crichton, che ha scritto di molto molto meglio, e neppure come racconto a tema sui limiti della scienza.
Infatti, per restare allo stesso tema della cura sperimentale degli alienati, c'è di meglio, per esempio Fiori per Algernon, che pur essendo di molto anteriore (è del 1966), è rimasto più attuale ed anche più toccante, avendo fatto a meno della superflua parte di scontatissimo poliziesco con scontatissimi colpi di scena dozzinali infilataci da Crichton (non manca neppure lo scontatissimo psicopatico che appare in casa della bella psichiatra mentre fa la doccia!!!).

Ciò detto, il libro proprio brutto non è: se vi attira il poliziesco in ospedale mischiato alla fantascienza un po' steampunk, questo volume fa per voi. In caso contrario, Crichton ha scritto di meglio: leggete quello.


 
 
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