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Joe Haldeman, Pace eterna, "Urania collezione" n. 97, febbraio 2011 [1997].
 
Copertina di ''Pace eterna'', di Joe Haldeman.

[Romanzo di fantascienza]

Recensione di Giovanni Dall'Orto


Splendido quando racconta la guerra, crolla quando ragiona di pace.

Insomma, è una maledizione: dopo il successo mondiale di Guerra eterna, al povero Haldeman, se non ficca la parola "eterno" nel titolo, non pubblicano più niente. Neppure un'opera che, come questa, con Guerra eterna non ha il minimo legame, collegamento o richiamo.

Il solo punto in comune fra i due romanzi è infatti, oltre al fatto di nascere dallo stesso autore, che parlano entrambi di una guerra. Ma non della stessa guerra, non dello stesso nemico, non dello stesso periodo, e neppure dello stesso pianeta... Ma l'"eterno", ahimè, ci va messo lo stesso.

In questo romanzo siamo in centroamerica al seguito di un gruppo di giganteschi guerrieri-robot, di fatto dei waldo telecomandati da esseri umani che non si sono mai mossi dal territorio statunitense. I robot agiscono in branco, e i loro guidatori sono interconnessi fra loro, tramite una porta neurale, in una sorta di fusione di gruppo quasi telepatica.

E fino a quando Haldeman indugia a descrivere la guerra e il suo orrore, l'opera scivola senza intoppi in un crescendo d'orrore che è tanto più impressionante quanto più è descritto senza alcun compiacimento, in modo quasi neutro. Come se procurare la morte potesse essere mai qualcosa di neutro.

Proprio per l'esistenza di questo crescendo ci sembra plausibile che uno dei tecnici-soldati incaricati di muovere i waldo, un nero, docente universitario di fisica, maturi un crescente disagio che lo porta a farsi domande sul senso di ciò che sta facendo.
In questo stato mentale sarà ben disposto ad aiutare la fidanzata, una donna bianca più anziana di lui, a sua volta scienziata, quando gli chiederà una mano per fare le pulci a certi calcoli su un esperimento scientifico governativo teso a ricreare la condizioni fisiche da cui nacque l'Universo. Si scoprirà che i calcoli relativi all'esperimento sono errati, o peggio ancora deliberatamente occultati per nascondere il fatto che il probabile esito dell'esperimento sarà la ri-esplosione dell'Universo stesso.


E qui crolla tutto. Questa seconda trama costringe ad analisi politiche nelle quali Haldeman si rivela particolarmente inetto. Non si capisce bene per quale motivo un rischio di tale gravità debba essere preso alla leggera dai responsabili governativi (dopotutto, a differenza che in guerra, qui la pelle la rischiano pure loro): per risolvere il dilemma si ricorre allora al complotto di fanatici religiosi, infiltrati ai massimi livelli dello Stato, da essi controllato invisibilmente. Siamo in puro complottismo all'americana, al maccartismo, ma di sinistra.

D'altro canto l'alternativa e la risposta di Haldeman a questo stato di cose è un progetto, dalle vaghe sfumature "New Age", talmente scombinato da risultare ridicolo. Si tratta di rapire i massimi gradi militari (una bazzecola, alla portata di chiunque!), interconnetterli (si è scoperto che i lunghi periodi di interconnessione rendono incapaci di compiere atti violenti), per poi renderli "quinte colonne" che favoriscano la pace e sabotino la guerra. Pìiisendlòv, oh yeah!
In due parole: un minestrone.


Fino a che la narrazione si tiene sul piano della descrizione della guerra e dei suoi orrori, il romanzo merita cinque stelle piene. Specie se si riflette sul fatto che ciò che nel 1997 era prefigurazione fantascientifica, oggi nella guerra afghana è realtà di tutti i giorni: tecnici comodamente seduti a migliaia di chilometri di distanza fanno sparare i loro droni teleguidati contro ribelli inermi nei confronti dell'ipertecnologia americana, ma nonostante questo ben decisi a non arrendersi.

È semmai nell'intreccio, nella creazione di trame dietro le quinte, di mosse e contromosse, che emergono i limiti di Haldeman. Le motivazioni dei suoi personaggi divengono bizzarre, ben poco credibili, quando non francamente paranoidi. Alcuni tratti (in particolar modo i piani per spingere le autorità statunitensi a concludere una pace durevole, anzi eterna) sono talmente puerili da far crollare il numero di stelle del mio giudizio.


Il romanzo è scritto con professionalità, tant'è che s'è meritato un "Premio Hugo". E se ci atteniamo alla capacità di creare idee e scenari in grado d'imprimersi nella memoria, è stato un premio meritato. Ma se ci riferiamo all'abilità di rendere plausibili fino in fondo le azioni dei personaggi, be', proprio da "premio" direi che non siamo.

In margine va notato che questa edizione in "Urania collezione" è stata ripulita dagli strafalcioni di traduzione di cui si lamentarono in coro i lettori della prima edizione "Urania". Io in effetti non ne ho trovati, e la lettura scorre quindi senza intoppi.


 
 
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