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Criteri di trascrizione e note sul linguaggio del verbale del processo a Francesco Calcagno (1550)

Criteri di trascrizione

La mia trascrizione del verbale del processo non è di quelle che vengono definite "diplomatiche" (ossia fedeli al testo originario come una fotocopia). Non ho ritenuto opportuna una simile fedeltà perché il testo esaminato non ha valore letterario, ma piuttosto documentario.

Per questa ragione ho tradotto in italiano, per comodità dei lettori, le parti scritte in latino (ossia tutte le domande e le note degli Inquisitori).
Comunque, per far sì che i brani tradotti (e quindi "manipolati" da me) fossero riconoscibili, li ho evidenziati servendomi del carattere corsivo.


Pochi i miei interventi.

  • Ho sciolto le abbreviazioni contenute nel manoscritto.
  • Ho adeguato all'uso moderno punteggiatura e maiuscole.
  • Ho aggiunto qualche accento e apostrofo per facilitare pronuncia e comprensione di parole fortemente dialettali. 
  • Qualche rara parola mancante è stata integrata fra parentesi acute: "< >".
  • Fra parentesi quadre, "[ ]", ho poi aggiunto la chiarificazione di qualche termine un po' oscuro: questo per evitare una tempesta di note a margine.
  • Infine col segno convenzionale della doppia barra, "//", ho segnalato l'inizio di una nuova pagina sul manoscritto.

Nessun intervento è stato compiuto sulla grafìa delle parti italiane, per non sopprimerne il "profumo" dialettale lombardo e veneto. 
Trattandosi della parlata di regioni del Nord Italia, il lettore non si potrà naturalmente attendere molto rispetto delle lettere doppie (delle quali è stato fatto il solito scempio).


Osservazioni sulla lingua

Per chi non avesse dimestichezza con i dialetti del Nord Italia segnalerò l'uso dialettale di "ge" (che si legge "ghe") e della sua approssimativa traduzione "li/le", che stanno per "gli/le/loro/ci" ("ge dicevo" sta per "gli/le dicevo" e per "dicevo loro"); di "él/l'" (oltre al canonico "e'") per "egli" ("non me ricordo che l'abbia detto" sta per: "che egli abbia detto") ma anche per l'impersonale ("el me fu ditto" = "mi fu detto"; "el gli era" = "c'era"); di "dito/ditto" per "detto", e simili.


Si nota inoltre la presenza di alcune preferenze linguistiche, come quella per i condizionali in "-rìa" anziché in "-rébbe" ("doverìa" piuttosto che "dovrebbe") e per i participi passati tronchi ("sta' " anziché "stato"), lo sporadico troncamento di vocali finali ("ben", "havér", "gioràr"), ed infine la preferenza per la desinenza in "a" della prima persona del passato ("io era" ecc.).


La tendenza a lenire le consonanti tipica del Nord Italia spinge lo scrivano a non poche oscillazioni d'ortografia. Così "sc" diventa "s" sorda ("lassàre", "Brèssa", "lassìve") e anche (per diretta influenza del dialetto) "s" sonora ("basàre"); "c" dolce diventa "z" sorda ("ciànze", "bràzzo" e viceversa: "ànci"), mentre "g" dolce (gi/ge) diviene "z" sonora ("zùgno", "bertezàre", "scorazàrsi").


Vi è poi qualche manciata di "prestiti" dal dialetto, che ho provveduto a "tradurre" fra parentesi quadre: "mi" (per "io"), "Domo", "està", "desdotto"; la pittoresca famiglia di incroci del nome "Giovanni" col dialettale "Zuàn/Giuàn" ("Gioani" ecc.) e, per i verbi, "biastemàr", "sentùdo", "posséva", "digàndoce".


Esistono infine latinismi intrufolati dal compilatore del verbale: l'uso di "ti" per il suono "zi" ("vitio", "denontia", "differentia", "Lucretio"); la "h" etimologica in "huomo/homo", "Christo", "monacho", "havere", alhora", "hostia", "catholico", fino a veri e propri calchi dal latino, come in "fabule", "vulgo", "reprehendere", "sustantia", "simplice", "sequente", "scriptura" o "impietà".
 
 

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Note

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