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Anonimo (1931)

Solfataro siciliano
Solfataro siciliano.
 
Da: "Il regime fascista"  [3/10/1931] [1].

La prima sentenza di condanna a morte

pronunciata in base al nuovo Codice.

Roma, 2 sera.

La sentenza della Corte d'Assise di Caltanissetta che condanna a morte i seviziatori assassini di un povero ragazzo, è favorevolmente commentata. Come i lettori ricorderanno, i condannati sono i due zolfatari Diego Mignemi di 67 anni, e Francesco Calafato di 23 anni, entrambi dì Riesi, colpevoli di un raccapricciante delitto consumato in quelle miniere di zolfo.
Un feroce delitto che ha portato alla condanna della pena di morte dei due siciliani può ricostruirsi così.

La sera del 17 luglio scorso, si presentò a Riesi, alla locale caserma dei carabinieri, il zolfataro Giuseppe Zuffante, il quale, accompagnato dal Calafato e da certo Logorosson, riferiva che il di lui figliolo Salvatore, di 13 anni, manovale nella miniera Zallerita, alla dipendenza del Calafato, si era improvvisamente allontanato dal lavoro, senza aver più fatto ritorno, neanche a casa. Lo Zuffante riferita anche che della scomparsa del figlio, lo aveva informato, verso le 17.30, lo stesso Calafato; e che lunghe erano state le ricerche fatte nella miniera e nei dintorni.

Le indagini e gli arresti
Informati i funzionari di Pubblica Sicurezza, e malgrado che i genitori del giovanetto pensassero a una disgrazia, si fece strada, invece, il sospetto di un delitto, in quanto esaminata la topografia del luoghi, risultò assolutamente doversi scartare l'idea di un'accidentale caduta dello Zuffante nel fiume. Più tardi, infatti, l'ipotesi del delitto veniva avvalorata dagli accertamenti medico-legali e dall'autopsia del cadavere essendo risultato che il ragazzo era stato ucciso mediante strangolamento, e che prima della uccisione, l'infelice aveva subito anche atti innominabili.

In seguito a tali risultanze si iniziarono le opportune indagini per la identificazione e l'arresto degli autori del nefando crimine; e la maggiore attenzione fu fermata sul Calafato e sul Mignemi, chè soltanto essi si trovavano presenti al lavoro, nel momento della scomparsa del giovanetto. Gravi elementi venivano poi raccolti a carico loro; sottoposti infine ad uno stringente interrogatorio, il vecchio Mignemi, dopo aver cercato di accusare soltanto il Calafato quale autore del delitto, finiva con confessare anche la sua colpevolezza, e faceva una minuta esposizione dei fatti; il Calafato, arrestato, negava la sua partecipazione al delitto, senza riuscire a controbattere le esplicite accuse dei Mignemi.

Rinviati a giudizio, i due zolfatari sono stati ritenuti responsabili di violenza carnale, con sevizie, e di omicidio qualificato, in danno del ragazzo Salvatore Zuffante, e vennero condannati a 30 anni ciascuno per la violenza carnale con sevizie, ed alla pena di morte per l'omicidio qualificato.

Appena terminata la lettura della Sentenza, il pubblico si è dato a gesticolare ed applaudire, gridando: «Viva la giustizia!». L'imputato Mignami è rimasto impassibile, mentre il Calafato ha gridato a voce alta: «Sono innocente!». Per il trasporto dei detenuti alle carceri furono prese straordinarie misure di pubblica sicurezza; infatti fitti cordoni di carabinieri furono stesi lungo la salita del Palazzo di Giustizia di Caltanissetta. Al passaggio dei condannati, la folla ha imprecato ancora una volta contro di loro.

Questa sera i giornali della capitale notano innanzi tutto che questa fu la prima sentenza di morte per reati comuni, promulgata dal magistrato italiano in applicazione del nuovo Codice penale, il quale, come è noto, non ha solo riconfermato la pena capitale nei casi previsti dalia legge sulla difesa dello Stato, ma ha anche stabilito la stessa pena per i reati comuni maggiori. Che, nell'antico codice, erano colpiti dall'ergastolo, quando siano compiuti in particolari condizioni di atrocità. E tale appunto è il reato per il quale la Corte di Assise di Caltanissetta ha comminato la pena di morte. Si trattava di due bruti, di due feroci belve umane! Non si trattava pertanto di un semplice omicidio premeditato, ma di un delitto la cui stessa causale costituisce una turpe manifestazione di criminalità e la cui materiale esecuzione avvenne nella forma più vile e più atroce. Il verdetto è stato emesso dalla Corte d'Assise nella sua formazione nuova, quale è stata riordinata dal nuovo Codice di P.<rocedura> P.<enale>, cioè da giudici togati e da cittadini scelti con particolari requisiti e costituenti in unico collegio.

Lavoratori di una solfatara

Minatori di una solfatara
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Il ricorso in Cassazione
E bisogna riconoscere che in tale occasione la nuova Corte ha funzionato perfettamente. La cronaca dice che la sentenza è stata salutata dal grido di: «Viva la giustizia!» da parte del pubblico numeroso e vario. Il che sta a provare che il popolo non è affatto aprioristicamente ostile alla pena capitale, ma che, al contrario, quando essa colpisce delitti della gravità e della atrocità di quello giudicato dalla Corte di Caltanissetta, la fatale sentenza è la sola che possa tranquillizzare la coscienza popolare.

Oggi da Caltanissetta si ha notizia che i due condannati hanno sottoscritto e presentato, a mezzo dei loro difensori, dichiarazione di ricorso in Cassazione. È il primo ricorso contro una sentenza di condanna a morte che viene proposto innanzi al Supremo Collegio. Nonostante la eccezionalità, il ricorso è però regolato dalle norme comuni, in quanto nessuna deroga è contemplata nel vigente Codice di procedura per questo mezzo di impugnazione.

Due soli particolari riferimenti al ricorso, contro la sentenza di condanna a morte, sono contenuti nel nuovo Codice: uno all'art. 193, il quale stabilisce che l'imputato può togliere effetto con la propria dichiarazione contraria all'impugnazione per lui proposta dal difensore, salvo che sia impugnata una sentenza di condanna alla pena di morte; l'altro all'art. 549 dello stesso Codice di procedura, il quale stabilisce le spese e le sanzioni pecuniarie alle quali è soggetta la parte la quale ha proposto il ricorso che è stato rigettato.

Le disposizioni contenute in tali articoli non si applicano se è stato rigettato o dichiarato inammissibile il ricorso contro una sentenza che abbia inflitto la pena di morte. Dopo l'eventuale rigetto del ricorso da parte della Suprema Corte, c'è luogo alla domanda di grazia al Sovrano, se anche questa non sarà accolta, la sentenza diverrà definitiva e verrà inviata per l'esecuzione alla Procura generale della Corte d'Appello. La Procura generale l'invierà al comando del Presidio militare, il quale destina per la esecuzione il comando che abbia a provvedere. Perché tutto ciò avvenga e si svolga non possono trascorrere meno di sette od otto settimane.

L'autore ringrazia fin d'ora chi vorrà aiutarlo a trovare immagini e ulteriori dati su persone, luoghi e fatti descritti in questa pagina, e chi gli segnalerà eventuali errori in essa contenuti.
Note 

[1] Trascrizione del testo dell'articolo: Anonimo, La prima sentenza di condanna a morte pronunciata in base al nuovo Codice, ''Il regime fascista'', 3 ottobre 1930, p. 4.

Il fascismo reintrodusse la pena di morte, che era stata abolita nel 1889.

La prima condanna fu irrogata nel 1930 ai danni d'un certo Diego Mignemi (1863-1932), colpevole di avere stuprato e assassinato con un complice, Francesco Calafato (1907-1969) un ragazzino tredicenne, Salvatore Zuffante (1917-1931). Mignemi, già reo d'un precedente omicidio, fu giustiziato per fucilazione il 2 gennaio 1932.
Calafato, che non ammise mai la propria colpevolezza, e inizialmente condannato anch'egli a morte, riuscì il 2 gennaio 1932 ad ottenere la commutazione della pena in quella dell'ergastolo. Avrebbe scontato 35 anni di carcere e sarebbe stato liberato nel 1966, per morire nel 1969.

La vicende può essere seguita grazie a questi articoli di giornale:

  • Anonimo, La prima sentenza di condanna a morte pronunciata in base al nuovo Codice, "Il regime fascista", 3 ottobre 1931, p. 4.
  • Anonimo, Il ricorso di due condannati a morte alla Corte di Cassazione, "Il regime fascista", 25 ottobre 1931, p. 4.
  • Anonimo, Il ricorso di due condannati a morte, "Il regime fascista", 14 novembre 1931, p. 2.
  • Anonimo, Le domande di grazia sovrana per due condannati a morte, "Il regime fascista", 27 dicembre 1931, p. 2.
  • Anonimo, L'istruzione della domanda di grazia di due condannati a morte, "Il regime fascista", 31 dicembre 1931, p. 4.
  • Anonimo, La domanda di grazia sovrana respinta per i due zolfatari condannati a morte, "Il regime fascista", 1 gennaio 1932.
  • [Agenzia Stefani], L'epilogo di un atroce delitto. Diego Mignemi giustiziato. La grazia al Calafato, "Il regime fascista", 3 gennaio 1932, p. 2.
  • Anonimo, Inflessibile giustizia, ''Il regime fascista'', 3 gennaio 1932, p. 2.
La vicenda è stata rievocata da Walter Guttadauria nell'articolo: Quella storia di violenza che ci costò il «primato» di una condanna a morte, "La Sicilia", Caltanissetta, 10 luglio 2017, p. 35. (Il link scarica un .pdf; il testo è online anche qui e qui).

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