La violenza e i gay
[da
"Babilonia" n. 88, aprile 1991, pp. 14-15]
di: Giovanni Dall'Orto
[Nota del 2003, per mancanza di tempo metto online questo brano senza provvedere ad aggiornarlo, senza correggerelo e senza creare link d'approfondimento].
"Due
soli dei missili cruise lanciati contro Saddam Hussein costano la cifra
che Ronald Reagan ha stanziato nel corso della sua intera presidenza per
la prevenzione dell'Aids".
Questa
dichiarazione del gruppo "Act Up" di New York (per quanto prenda a esempio
Reagan, che è celebre per non aver stanziato fondi per prevenire
l'Aids) può fornire una motivazione contro la guerra del Golfo a
tutti i gay che sembrano non trovare motivi per opporsi alle guerre.
Questi gay a quanto pare sono molti. Non posso negare di essere stato sorpreso nello scoprire, all'inizio della guerra, quanto poco la cultura della nonviolenza sia penetrata nel movimento gay italiano. E non solo fra coloro che sono favorevoli alla guerra.
La sorpresa è tanto più grande in quanto il movimento gay si basa interamente nella sua tattica e nelle sue proposte sul pensiero nonviolento.
La mia sorpresa si è tramutata in rabbia quando ho scoperto, "grazie" alla guerra del Golfo, che l'idea che anche i gay hanno della nonviolenza è quella di un tipo di pensiero astratto molto bello da esibire in vetrina, ma assolutamente "irrealistico". Per la realtà occorre semmai (dicono) un'altra logica, quella della violenza e della guerra ("sgradevole" ma ahimè "necessaria").
Eh
no! Delle due l'una: o l'uso della violenza è maggiormente
risolutivo, è più efficace nel risolvere le controversie
di quanto non sia l'azione nonviolenta, oppure lo è meno
o al massimo è altrettanto efficace. Negli ultimi due casi,
la sbronza guerrafondaia a cui stiamo assistendo è solo un tragico
errore e un indice di idiozia. Nel primo caso, invece, è indice
di idiozia la scelta dei gay di non fare uso della violenza.
E
non serve nascondersi dietro l'affermazione secondo cui "in certi casi"
la guerra è "necessaria" perché può risolvere controversie
che l'azione nonviolenta non può risolvere. Se così stanno
le cose, è logico che un movimento come il nostro debba usare "in
certi casi" i metodi più efficaci, e non quelli meno efficaci, e
cosiddetti "astratti" e "irrealistici" come quelli nonviolenti.
In
effetti a questa conclusione era già arrivato qualche mese fa Larry
Kramer, che in una dichiarazione che ha fatto scalpore negli Usa ha dichiarato:
"L'arma della protesta civile è ormai spuntata. Ci stanno uccidendo
fra l'indifferenza generale. È arrivato il momento della violenza
e del terrorismo".
Chi
è d'accordo alzi la mano.
Cos'è
la nonviolenza
Esiste
un tragico equivoco sulla nonviolenza, equivoco non dovuto al caso ma alla
voluta disinformazione creata dai mezzi di comunicazione di massa, tutti
in mano ai fautori della violenza (compresa l'"Unità", in mano a
un fu-Pci che non ha mai avuto il coraggio di votare contro l'invio di
truppe italiane nel Golfo).
L'equivoco
consiste nello scambiare l'acquiescenza verso l'ingiustizia, che è
tipica dei cristiani (tanto "siamo nati per soffrire"!) con la nonviolenza.
Se qualcuno ti prende a sberle, porgi l'altra guancia...
Peccato
che questa non sia nonviolenza bensì masochismo: non a caso questa
interpretazione della nonviolenza crolla sempre miseramente alla prova
dei fatti. Don Levi, direttore dell'"Osservatore romano", ha detto nei
primi giorni di guerra a una trasmissione televisiva: "Come cristiani noi
non possiamo che essere contro la guerra. Questo non significa che noi
siamo pacifisti".
Ben
detto: porgere l'altra guancia non è da pacifisti: è da
stupidi. Non a caso Gesù, di fronte ai mercanti del Tempio,
fece di tutto fuorché porgere l'altra guancia!
Di
più: questa non è nonviolenza: questa è complicità.
Che è quella cosa che hanno avuto i Paesi "alleati", per dieci anni,
nei confronti di Saddam Hussein mentre massacrava i curdi, i comunisti
e gli oppositori in genere. O verso Hitler fin tanto che è stato
il "bastione contro il comunismo", salvo divenire un tiranno nel 1939,
appena firmato un patto con Stalin: la rapidità con cui si passa
dal patto Molotov-Ribbentrop alla seconda guerra mondiale è rivelatrice!
Questo è l'atteggiamento opposto a quello di coloro che oggi vengono beffeggiati perché "pacifisti" ma che già dieci anni fa si opponevano al commercio di armi, quelle armi che ora Saddam sta usando contro gli "alleati", dopo averle pagate col finanziamento del Kuwait e dell'Arabia Saudita!
No, la nonviolenza non è uno schizzinoso rifiuto dell'uso della forza anche se per fini di difesa, bensì l'uso della forza assoggettata ad un principio irrinunciabile, cioè che la vita umana è sacra. Vale a dire che la nonviolenza non è una rinuncia a difendersi, ma è una strategia di difesa che esclude l'assassinio e il ferimento di altri esseri umani.
La
difesa nonviolenta ammette un uso della forza: quello contro le cose e
le istituzioni. Se un nemico invade il mio Paese e io con il sabotaggio
sistematico delle strutture e dell'organizzazione sociale glielo rendo
inutilizzabile per i suoi fini militari, non si può dire che io
sia uno che porge l'altra guancia. Ciononostante sono uno che ritiene che
gli oggetti si possano ricostruire e sostituire, mentre gli esseri umani
no.
Non
a caso è su questa strategia che si basa (seppur contraddittoriamente)
il piano di difesa di Paesi come la Svizzera e la Iugoslavia.
Per quanto ho appena detto, nonviolento non è colui che finge che l'oppressione non esista, e che chiude gli occhi di fronte al nemico che opprime e massacra il suo prossimo (come hanno fatto e continuano a fare i governi, oggi impegnati contro Saddam, con tutti i tiranni della Terra, inclusi i sovrani feudali d'Arabia). Nonviolento è colui che nel difendere sé e il suo prossimo contro un aggressore, non dimentica mai che anche il nemico è un essere umano.
Mi è facile rispettare i diritti umani dei miei nipotini o del mio ragazzo; molto più difficile rispettare il mio nemico. Ma è proprio per questo che è necessario ripetere che la vita è un diritto che gli esseri umani hanno in quanto esistono, non in quanto si "meritano" o meno di essere lasciati in vita. Ricordiamoci che erano i nazisti ad arrogarsi il diritto di decidere chi "meritasse" di restare in vita e chi no.
Se
il sedicente "amante della pace" di qualsiasi tipo e colore riesce a giustificare
la privazione dei diritti umani (a partire dal più importante: quello
alla vita) del proprio nemico, come hanno fatto in Parlamento i radicali
italiani, Rosa Filippini e i deputati della sinistra indipendente, con
questo solo fatto dimostra di non fare capo ad un'ottica nonviolenta, perché
anch'egli aderisce all'idea secondo cui, come ha detto Saddam Hussein,
"i diritti umani vanno intesi in senso dinamico e non statico".
Il
cosiddetto "pacifista" non può trattare i diritti umani come un
concetto "dinamico". Per il "pacifista" l'inviolabilità dei diritti
umani è un dogma che non può essere discusso. Punto e basta.
Da
qui deriva la nostra "stupida" intransigenza nei confronti della "inevitabilità"
della guerra, da qui deriva l'"irragionevolezza" di noi cosiddetti "pacifisti"
di fronte all'"evidenza" del fatto che "nella presente situazione" i diritti
umani (a partire dal diritto alla vita) degli iracheni vanno intesi in
modo un tantino elastico. Da qui deriva il nostro cosiddetto "dogmatismo":
se per noi il fatto che la vita umana è sacra costituisce un dogma,
non si vede come potremmo discuterlo.
Realismo
della nonviolenza
Inoltre,
particolare ancora più importante, la nonviolenza non fa parte del
mondo dell'utopia, dato che i princìpi della nonviolenza sono alla
base dell'ideale stesso di "società" umana, e tutti noi ne esigiamo
il rispetto. Ogni giorno.
A
tal punto che persino nel corso dell'attuale guerra noi vediamo i giornalisti
guerrafondai dare per scontato che è giusto e doveroso applicare
i principi della nonviolenza, e nessun altro.
Farò
un solo esempio: il caso dell'Olp e di Arafat. I giornalisti concordano
sul fatto che la scelta di appoggiare la guerra di Saddam (non l'invasione
del Kuwait, che l'Olp ha condannato) ha "screditato" l'Olp. Il ministro
israeliano David Levy ha dichiarato che con questa scelta "l'Olp si è
messo fuori gioco".
L'appoggio
alla guerra, dicono unanimi i giornalisti, ha "sprecato" in un giorno
solo tutta la "credibilità" conquistata dai palestinesi nel corso
dell'Intifada (che è, giova ricordarlo, una lotta quasi interamente
nonviolenta).
Quando
Arafat si difende dicendo che è quarant'anni
che l'Occidente promette una patria ai palestinesi, e che la pazienza umana
ha un limite, gli si ribatte che questa non è comunque una buona
ragione per ricorrere alla violenza e ad appoggiare l'uso della violenza
per risolvere la questione palestinese.
Il
che è proprio, guarda caso, quello che noi cosiddetti "pacifisti"
diciamo nel caso dell'Iraq. Come si vede, anche i guerrafondai finiscono
per darci ragione. Il che dimostra che non siamo noi cosiddetti
"pacifisti" ad essere "fuori dalla realtà": sono i guerrafondai
a non essere pienamente in possesso delle proprie facoltà mentali.
Perché
delle due l'uno: o è lecito usare le armi per risolvere annose
ingiustizie (ma allora è lecito il terrorismo da parte
dell'Olp) oppure non lo è (ma allora non è lecita
la guerra contro Saddam Hussein).
No,
la violenza non paga. Le controversie vanno risolte con metodi che escludano
l'assassinio legalizzato. Metodi che funzionano.
Il
tiranno Saddam Hussein andava fiaccato proseguendo l'embargo che, solo
oggi ci vien detto, stava avendo successo. Il 5 febbraio la televisione
ha rivelato che un quarto dei soldati iracheni catturati soffre di denutrizione.
Sui giornali è apparsa la notizia che le reclute devono portarsi
in caserma le loro provviste perché manca il cibo.
A
questa situazione siamo arrivati dopo soli sei mesi di embargo, contro
i dodici che erano giudicati necessari. Io chiedo: se i guerrafondai riconoscono
ormai apertamente questi dati di fatto sull'efficacia di sei mesi di embargo,
era lecito attendersi che dodici mesi di embargo avrebbero avuto successo
(e senza massacrare diecimila
vite umane).
Esattamente
come ha avuto successo l'embargo contro il Sudafrica in cui finalmente,
ci assicurano i giornali borghesi, la minoranza bianca è scesa a
miti consigli e senza che la maggioranza negra abbia fatto uso della violenza.
Esattamente
come ha avuto successo quello contro il Nicaragua, dove la caduta del governo
sandinista non è avvenuta attraverso la guerriglia, che ha fallito
completamente i suoi obiettivi, ma attraverso la mancanza di beni di consumo,
la perdita di potere d'acquisto dei salari, la mancanza di sviluppo economico,
il continuo vivere in una economia di assedio.
E
si noti che si trattava di un governo, secondo il giudizio degli stessi
giornali che oggi fanno propaganda alla guerra, "tirannico" e "dittatoriale",
il che dimostra allora che la lotta nonviolenta funziona contro i governi
dittatoriali, quale è senza ombra di dubbio quello di Saddam Hussein.
L'obbedienza
non è una virtù
Ho
detto che il nonviolento non è colui che di fronte all'ingiustizia
finge che nulla stia succedendo. Nonviolento è colui che combatte
l'ingiustizia ma non con l'assassinio legalizzato bensì con lo sciopero
(arma nonviolenta per eccellenza!), la disobbedienza, il sabotaggio, la
diserzione.
In
questi giorni i socialisti ci hanno detto, per "dimostrare" che esistono
"guerre giuste" (sic!) che tale fu per esempio la Resistenza. Dimenticando
che se oggi ricordiamo la Resistenza non è per i suoi successi militari:
la
guerra la vinsero altri. Ad esempio Josif Stalin, un democratico
davvero di spicco, il cui trionfo militare ha reso certo più "giusta"
quella guerra.
Quanto
contò l'apporto strettamente militare della Resistenza è
del resto mostrato dagli sforzi compiuti dal generale
Alexander per disarmare i partigiani
italiani...
No,
se la nostra Repubblica è "nata dalla Resistenza" ciò si
deve al fatto che in primo luogo essa fu tutto ciò che oggi i socialisti
odiano: fu la diserzione da un esercito legittimo e da una
"guerra giusta" combattuta per "difendere la Patria" contro un nemico
"affamatore ed arrogante".
Fu
la scoperta del fatto che si può e si deve disobbedire quando la
coscienza ce lo impone. Come ha stabilito anche il processo di Norimberga.
La
disobbedienza paga. Quasi l'intera comunità ebraica danese fu
salvata dall'Olocausto nazista per mezzo del rifiuto nonviolento di obbedire.
Al contrario le comunità ebraiche di popoli in armi contro il nazismo
furono annientate. E, tragedia nella tragedia, molte autorità
ebraiche collaborarono con il nazismo nella vana speranza di salvare qualcosa.
Meglio sarebbe stato se avessero disobbedito e sabotato fin dal primo istante.
Nulla
è più inumano e incomprensibile per me, nella storia dell'Olocausto,
delle vittime che scavavano la fossa in cui sapevano che sarebbero state
seppellite. Perché lo hanno fatto, mi chiedo? Cosa avrebbero perso
rifiutandosi di farlo? A cosa è servito loro coltivare il culto
dell'obbedienza fino a quel punto?
E
che dire di noi omosessuali che come loro siamo sempre pronti ad aiutare
ogni potere che schiaccia e opprime i "diversi", i "dissidenti"?
Scaveremo anche noi la nostra fossa con le nostre mani?
Uno
strumento indifferente
Parlando
del Nicaragua ho utilizzato di proposito un caso in cui la nonviolenza
è stata usata per fini contrari a quello che il "senso comune" delle
sinistre giudica essere "la giustizia".
L'ho
fatto perché questo caso ci ammonisce: la lotta nonviolenta è
comunque una forma di lotta, cioè un tipo di uso della forza, e
come qualsiasi uso della forza può essere piegato a fini ingiusti.
La
caduta del governo di Salvador Allende in Cile, che ha portato anni di
sciagura al popolo cileno, è stata preparata da un'azione squisitamente
nonviolenta come lo sciopero generale dei camionisti e da quello delle
casalinghe cilene.
Ciò
che rende più "giusta" la lotta nonviolenta non è quindi
una qualità intrinseca, ma solo la sua possibilità di essere
compatibile, a differenza di quanto avviene con la lotta violenta, con
il principio fondamentale di qualsiasi società umana, che è
la sacralità della vita umana.
Per
dirla in altre parole, ritengo "superiore" una risposta nonviolenta non
per il fatto che essa non permetta abusi e sopraffazioni (li permette),
ma perché persino quando è usata per commettere ingiustizie,
garantisce il rispetto di certi diritti umani.
Dunque
la non violenza non costituisce di per sé la giustizia: è
solo uno strumento di giustizia. La "indifferenza" etica dell'arma di lotta
nonviolenta costituisce comunque una garanzia della sua efficacia. Il fatto
che i padroni dei più grandi eserciti della Terra ricorrano anch'essi
alla nonviolenza per i loro atti di ingiustizia, è la prova che
la lotta nonviolenta funziona.
Se
poi costoro usano anche la violenza, ciò avviene perché la
violenza permette una quantità di ingiustizia infinitamente maggiore
di quella che si può imporre con la nonviolenza.
Lo
sciopero dei camionisti può fare cadere un governo, ma non può
assassinare gli avversari politici e ridurre in schiavitù una nazione.
La guerra sì.
E
chi preferisce la guerra per risolvere la controversie internazionali (qualsiasi
tipo di controversia internazionale, quella con l'Iraq inclusa) lo fa esattamente
per questa ragione.
Si
voleva radere al suolo l'Iraq per impedirgli di essere una "potenza regionale":
questo è stato il motivo per cui ogni possibile sbocco della crisi
del Kuwait che non prevedesse la guerra è stato scartato. Un embargo
internazionale non avrebbe permesso di ridurre a un cumulo di rovine l'Iraq.
Da
questo punto di vista la guerra era davvero "inevitabile".
La
nonviolenza è la sola forma di realismo
Il
fatto che l'Iraq abbia combattuto con le armi e il denaro fornitegli
da coloro che gli hanno mosso guerra, mostra in modo inequivocabile come
il mantenimento della pace attraverso la preparazione della guerra (si
vis pacem, para bellum) sia utopico e irrealistico, e appartenga solo al
mondo dei sogni.
Il
Kuwait ha creduto a questa logica, ed ha pagato cara, molto cara, l'illusione
che le armi possano portare pace e giustizia.
Le
paci si fanno nonostante le guerre, non grazie alle guerre. Chi perde non
accetta le condizioni di pace: le subisce. Riproponendosi, non appena possibile,
di cambiare le carte in tavola. Ecco perché ogni guerra scoppia
sempre nella speranza di risolvere gli strascichi lasciati in piedi dalla
guerra precedente.
Questo
fenomeno storico di chiama "revanscismo" cioè, in termini terra
terra: "desiderio di avere la rivincita".
Non
sono un indovino, ma sono in grado come tutti di predire che l'Occidente
vincerà senza alcun dubbio questa guerra, ma poi perderà
la pace, perché dopo la guerra avrà di fronte un mondo arabo
sempre più in subbuglio e desideroso di vendicarsi.
Questo
non avverrà perché noi siamo "cattivi" e gli arabi siano
"buoni". No di certo: avverrà perché una volta di più
abbiamo ceduto all'illusione che sia possibile ottenere giustizia attraverso
la violenza. I "buoni" (in quanto "vittime") palestinesi, sono da quarant'anni
senza patria e senza pace anche perché gli arabi avevano
creduto di poter risolvere il problema della presenza ebraica in Palestina
attraverso l'uso della violenza.
Meglio
di altri, il loro caso mostra chiaramente che la logica della guerra apre
ferite che non riescono più a rimarginarsi, e che scatenano a ripetizione
una guerra dopo l'altra.
La
nostra lotta nonviolenta
Tutto
questo, mi dirà qualcuno, è molto carino, ma noi gay cosa
c'entriamo?
C'entriamo
sì. Perché siamo un gruppo minoritario (che quindi non può
contare di imporre le proprie richieste ottenendo la maggioranza dei voti
al Parlamento). Perché allora non proviamo a farci rispettare attraverso
l'uso della violenza?
In
fondo, anche se oggi molti fingono di dimenticarlo, pochi anni fa tutta
Italia fu scossa dal dibattito sulla liceità dell'uso della violenza
per fini "giusti" e "inevitabili".
"Di
fronte all'impossibilità di cambiare una società marcia,
e di fronte all'aggressione di trame segrete e servizi segreti deviati
che mettono le bombe e assassinano la gente", si chiesero alcune persone,
"è lecito prendere in mano le armi e condurre la "inevitabile" guerra
contro uno Stato ingiusto?".
Purtroppo
ci fu chi rispose "sì" a questa domanda: fu così che nacquero
realtà come le "Brigate rosse", che hanno scatenato uno dei periodi
più bui della storia italiana. Abbandonando la fase in cui la lotta
nonviolenta (lo sciopero la controinformazione e la disobbedienza) aveva
ottenuto molti risultati.
Ebbene,
l'"inevitabile" ricorso alla violenza per realizzare la giustizia, non
solo non conseguì il risultato prefisso, ma causò la peggiore
catastrofe della sinistra italiana nel dopoguerra.
Il
che dimostra una volta di più, io credo, che dall'uso della violenza,
"evitabile" o "inevitabile", non può nascere mai la giustizia, per
quanto sublime sia l'ideale che lo giustifica.
Questa
è la principale ragione per essere nemici della logica della violenza,
e credo che da solo dovrebbe bastare.
Esistono
però anche altri motivi per essere contro la logica della guerra
che ci riguardano in quanto gay.
Il
primo è che le guerre favoriscono la mentalità per cui tutti
possono essere solo o bianchi o neri, cioè o amici oppure "nemici".
E non occorre molta fantasia per capire da che parte tendiamo a trovarci
noi gay in queste situazioni.
Un
gruppo tendenzialmente malvisto in tempo di pace tende a diventare decisamente
nemico in tempo di guerra. In tempo di guerra la "diversità" è
infatti il marchio del "nemico".
Il
secondo motivo è che gli omosessuali, in quanto individui potenzialmente
ricattabili dal "nemico", sono visti come un "rischio per la sicurezza
del Paese". La grande "caccia alle streghe" del maccartismo in America,
si basò proprio sulla presunta "inaffidabilità" di un lavoratore
omosessuale in quanto security risk.
Il
terzo motivo è che la guerra è una "necessità" che
mette in secondo piano qualsiasi altra necessità. Dopo questa guerra
lo Stato italiano aumenterà le spese militari, il che significa
che ci saranno meno risorse per altri problemi.
In
questo contesto, l'Aids a quale punto della scala delle priorità
finirà? E i problemi dei gay importeranno qualcosa a qualcuno? Io
non credo che mentre la gente muore in guerra i diritti civili dei gay
importeranno a chicchessia.
Il
quarto motivo è che il clima di guerra rimette in sella i rottami
del più vieto e fascistico maschilismo. Quelli che i coglioni ce
li hanno quadri, e simili. Tutta gente che, lo sappiamo, odia i gay ed
ha bisogno di usarli come simbolo di tutto ciò che è detestabile:
"siamo uomini o froci"? Dubito che l'atmosfera che si respirerà
nei nostri confronti migliorerà.
Già
il guerrafondaio Forattini ha proposto una squallida vignetta in cui Saddam
"lo mette in culo" a Begin. E questo è solo un assaggio di quel
che ci aspetta.
L'ultimo
motivo è che nel momento in cui il rispetto del diritto è
affidato alla forza bruta, in cui vacilla le "certezza del diritto", i
gay non possono più contare su nulla.
A
che pro chiedere leggi a favore dei gay a uno Stato che scavalca la Costituzione
senza suscitare altro se non sbiadite protestine di quattro gatti?
Cosa
varrebbero queste leggi pro-gay, in uno Stato in cui le leggi sono carta
straccia? Per essere garantiti nei nostri diritti noi gay abbiamo bisogno
di una società in cui la ragione e il buon senso prevalgano, e nella
quale non sia la forza a dettar legge (a torto o ragione poco importa).
Conclusione
Cari
amici e cari compagni, spero che l'ubriacatura guerrafondaia che ci attornia
svanisca presto (anche se temo che non sarà così) e che la
guerra mostri il suo vero, disgustoso volto.
Mi
ripugna vedere quanto in basso siamo arrivati, quando leggo un titolo sul
"Corriere della Sera" del 4/2/1991 che dice: "Uccidere è un'arte
che non ammette compassione". Un'arte!
Io
credo che se la gente si abituerà, grazie anche ai padroni dei mass-media
(è grazie al monopolio assoluto dell'informazione che i guerrafondai
stanno vincendo) a stimare tanto poco la vita umana, neanche le nostre
vite di "froci" varranno più molto.
Per
questo mi fa molta paura l'indifferenza che noto nella generazione più
giovane di gay. Una generazione che in gran parte ha fatto della carriera
e del denaro il solo "valore" della propria vita.
Con
sorpresa sento questi diciottenni gay giustificare la guerra perché
necessaria a mantenere il nostro benessere economico, senza nemmeno preoccuparsi
di trovare pretesti che nobilitino in qualche modo le loro parole.
Sono
quelli della mia generazione che hanno bisogno di motivi etici per condannare
o per giustificare la guerra: per questi ragazzi il fatto che sia economicamente
giustificata è già un motivo sufficiente.
Con
fastidio mi accorgo pure del fatto che questi ragazzi sono favorevoli alla
guerra a patto che siano altri a combatterla, e che in generale sono così
su tutto: abituati a stare con mammà fino ai 26 o 30 anni, si aspettano
che siano gli altri a farsi carico dei loro problemi. Compresi quelli che
hanno come gay.
Leghe
e Cobas di tutti i colori ci promettono un futuro sempre più egoista
e sempre meno solidale. Nel quale, cioè, ci sarà sempre meno
posto per la nostre "diversità" e per la nostra richiesta di solidarietà
di una parte almeno dei "normali".
Io
non so se sono utopico nel mio ostinarmi a credere nel bisogno della solidarietà,
nell'eguale "diritto al perseguimento della felicità" per tutti
gli esseri umani. Certo mi deprime immensamente sentire i discorsi che
si fanno attorno a me in queste settimane, accorgermi che i gay sono tanto
razzisti e violenti quanto coloro che li perseguitano. Mi fa male toccare
con mano quanto noi non siamo moralmente migliori dei peggiori picchiatori
fascisti e anti-gay contro cui combatto.
So
che ci aspetta un periodo buio, in cui ci sembrerà che il peggio
non abbia mai una fine, e nel quale potrebbe attenderci (gli dèi
non lo vogliano!) una guerra "in casa nostra". Ma so pure che è
fin troppo facile essere "progressisti" quando esserlo è di moda,
fa chic e non costa nulla. Tutto il contrario di adesso.
Vi
chiedo allora di farvi sentire, nelle prossime riunioni dell'Arci gay,
affinché l'impegno della nostra associazione a favore di una cultura
della pace sia più netto, e perché non ci sia più
posto per i machiavellismi di chi in pubblico è contro la guerra
e in privato la ritiene "necessaria".
I
miei saluti frocissimi:
Giovanni
Dall'Orto
(presidente
Arci gay Milano, redattore mensile gay "Babilonia")
Nota:
questo scritto è firmato a titolo personale e non a nome dell'Arci
gay di Milano.
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testo dida |
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