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Il dramma dell'omosessualità

[Da: "Pride", n. 44, febbraio 2003, pp. 72-73.]

di: Giovanni Dall'Orto.

Sandro Penna ritratto da Vittoriano Rastelli per _Epoca_ del 7-12-1974.
Sandro Penna.
 



Sul quotidiano "La Repubblica" è apparsa una recensione che presenta l'omosessualità come "tragedia", "vizio" e "dannazione", e si lagna dei gay che osano fare i matrimoni in piazza. Una prova del fatto che i grossi nomi della cultura italiana sono fossilizzati a trent'anni fa.

È possibile studiare gli scritti di san Francesco d'Assisi non sapendo nulla di cristianesimo? Ovviamente sì. E studiare gli scritti di Cavour senza sapere nulla del Risorgimento italiano? Ma certo! E magari studiare anche Shakespeare senza capire assolutamente nulla di teatro? Sì, sì e sì.

Ce lo assicura Cesare Garboli, letterato italiano di “chiara fama”, considerato il più importante studioso del poeta omosessuale Sandro Penna (suoi sono i Penna papers, editi da Garzanti nel 1984, che ne raccolgono la produzione postuma… e che a p. 82 definiscono la sua omosessualità "fetore, incurabilità della ferita che rende così diverso (...) urlante di dolore, l'eroe che è simile a tutti gli altri").



Garboli ha infatti aperto lo scorso cinque gennaio una recensione su "La Repubblica" con queste testuali parole: "M'intendo poco di omosessualità, e quel poco che so, mi viene dal sentito dire: confidenze, aneddoti, racconti di amici (…). Troppo poco, per saperne qualcosa".

Quest'ammissione viene dal maggiore studioso vivente di quel certo poeta che ha scritto versi in cui sfotteva: "L'amore dei due sessi / accentua la commedia"; che canzonava i critici stufi di leggere sempre di sesso nelle sue poesie: "Il problema sessuale / prende tuta la mia vita. / Sarà un bene o sarà un male / mi domando ad ogni uscita"; che li sbertucciava coi versi: "Sempre fanciulli nelle mie poesie! / Ma io non so parlare d'altre cose. / Le altre cose son tutte noiose. / lo non posso cantarvi Opere Pie", che li provocava con la poesia intitolata: "Omosessualità" (sic) che si conclude con le parole: "All'alba s'incontrarono / i loro corpi nudi. / Fu una cosa del tutto naturale".

Ma, soprattutto, il poeta che alla visione dell'omosessualità come cupa tragedia che Garboli propaganda, opponeva questi versi inequivocabili: "Moralisti. / Il mio mondo che vi pare di catene / tutto è tessuto d'armonie profonde".

L'omosessualità è insomma il nucleo fondante della poesia di Penna… ma Garboli confessa di non saperne proprio nulla. Quindi, almeno, si astiene dal parlarne? Nossignori. Non sa nulla, però pontifica, rassicurandoci sul fatto che Penna non aveva nulla a che spartire con quei buffoni di militanti gay del giorno d'oggi: "Povero Penna! Come si sentirebbe spaesato nella normale trasgressività di oggi, in mezzo a tante coppie di gay che festeggiano la cerimonia di nozze con fasci di fiori d'arancio e lancio di riso sugli sposi".



Povero Penna sì, davvero! Lui che scriveva poesie orgogliosamente omosessuali già in piena epoca fascista, che pagò personalmente per la sua omosessualità aperta e orgogliosa, viene trasformato in un santino infilzato omofobo, peggio, in un moralista come quelli che prendeva in giro nei suoi versi!

E tutto questo grazie a quel Cesare Garboli che non sa nulla, giura, di omosessualità (e da quel che scrive, gli crediamo!), ma poi ingombra due colonne di giornale a discettare su un libro di tragici amori omosessuali (scritto da una donna eterosessuale) dichiarandosi "debitore a un testo tragico per me illuminante, dedicato (…) alla vita disperata di un giovane e bellissimo omosessuale".

Un testo, sospira Garboli, che nulla ha a che vedere con quella schifezza che propinano oggi i froci sotto il nome di "cultura gay" o "queer", roba da checche: "quel sistema espressivo fatto di trilli in falsetto, atteggiamenti, sculettamenti, movenze recitate e smorfiose, grimaces più o meno involontarie che si configurano come parodia del femminile, spesso in funzione ribelle e derisoria dell'universo maschile. A questa semiotica va ricondotta anche la varietà onomastica che definisce la tipologia omosessuale, come checca, o zia, o l'inglese “queer” e “queen".

Purtroppo per ragioni di spazio non posso citare integralmente questo articolo allucinante, che definisce il protagonista omosessuale "fiore innocente e malato" e "giovane sciagurato", l'eterosessualità "amore naturale", l'omosessualità "vizio", "dannazione a vedere riprodotto il proprio volto in tanti specchi", concludendo: "essere omosessuali vuol dire essere condannati a far parte di una moltitudine sempre più emergente e indistinta".

Ma anche quanto ho già citato dovrebbe rendere chiaro il fatto che questo pezzo pare scritto nel 1973 e non nel 2003: non a caso l'articolo di giornale che scatenò la nascita del movimento gay in Italia nel 1971 s'intitolava "L'omosessuale, l'infelice che ama la propria immagine".



Eppure "la Repubblica" non è nuova a scherzi del genere: per esempio ricordiamo tutti i forsennati attacchi di Alberto Arbasino contro il Gay Pride in cui si sfotteva l'orgoglio gay come "orgoglio del sedere".

E sono sempre quelle pagine, le pagine culturali, a dimostrarsi chiuse in una bolla temporale ferma a trent'anni fa, come se i redattori non leggessero mai le altre pagine del loro giornale, se non per esecrarle.

Questa volta però l'han fatta grossa anche loro. Il pezzo di Garboli ha suscitato un'ondata di proteste, e "La Repubblica" al solito ha scelto di censurare tutto e non pubblicarle (troppo imbarazzanti…) dando però la parola di nuovo a Garboli per una contro-risposta. Questo è ciò che gli eterosessuali chiamano par condicio

E che ha fatto Garboli? Ha risposto facendo la vittima, dicendo che è stufo del vittimismo dei froci, e che non ne può più di leggere romanzi di checche lagnose.

Ora, di lagne, di Dolori del giovane Inverter, non se ne pubblicano più, ad un certo livello, da decenni, a parte proprio i libri (scritti da etero) come quello che Garboli esalta...

Pensiamo a Tondelli, che tutto fa nei suoi romanzi fuorché lagnarsi, a Busi, che ha già pubblicato almeno venti volte (sotto titoli diversi) lo stesso romanzo il cui protagonista sfida, provoca, si vanta, ma lagnarsi decisamente mai; a Golinelli, con le sue farse piccoloborghesi in cui i personaggi hanno altri problemi per la testa che lagnarsi; a Matteo B. Bianchi, che sulle disgrazie ordinarie della frociaggine ci ride sopra e si (e ci) diverte; a Severini, con la sua riflessione serena e profonda, sempre speranzosa e ironica anche nei momenti più toccanti; ai divertimenti-thriller di Farinetti; alla recentissima generazione dei Mancassola e dei Cerchierini… ma queste lagne, dove stanno? Dove sono i personaggi che si piangono addosso?

In realtà la risposta di Garboli acquista senso solo se si capisce che le "lagne" per lui non sono altro che le analisi e le denunce, i rifiuti di quei "drammi esistenziali" che a lui invece piacciono tanto.

Come tanti altri reazionari (Alberto Arbasino, Dominique Fernandez, Camille Paglia), anche e soprattutto gay, Garboli ci dice che l'omosessualità era una condizione migliore quando gli omosessuali non facevano tutte queste rivendicazioni, "non festeggiavano la cerimonia di nozze con fiori d'arancio", tacevano, soffrivano e morivano… come il protagonista del romanzo che tanto piace a lui.




Ci spiace per Garboli e per gli omofobi redattori della pagina culturale della "Repubblica", ma quei tempi sono finiti. Non a caso se quei bei romanzi di una volta in cui l'omosessualità era tragedia gli etero li vogliono proprio leggere, ora se li devono scrivere da sé.

È già qualcosa.


Tratto da: "Pride", 2003.
 
 
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