Riflessioni
sulla
Corte costituzionale e il movimento gay
17/04/2010 Gentile signor Dall'Orto,
Seguo da tempo e con interesse il lavoro che lei, anche con sua madre, sta portando avanti e volevo da tempo ringraziarla. Non solo per la grande dignità e il coraggio che avete avuto nella lotta per far emergere dall'oscurità gli affetti e le famiglie di chi veniva visto come un mero individuo sessuale, ma anche per le sue posizioni fuori dal coro, o meglio dall'acquario in cui placidamente sguazzano le associazioni lgbt, almeno per la maggior parte... Condivido pienamente il
suo giudizio sulla sentenza della Corte, ma soprattutto sul
solito sterile e deprimente siparietto ideologico cui ha dato vita.
Io ritengo, molto umilmente, che sarebbe
giunta per il movimento l'ora di fare un bilancio circa le proprie scelte
politiche, strategie comunicative, strade di rivendicazione.
L'attenzione alla spartizione economica della lucrosa fetta del, cosiddetto, divertimento gay sembra prevalere sulla lotta di rivendicazione politica. Gli attriti e le gelosie reciproche, la concorrenza diretta e il disaccordo persino sul Pride (su cui ogni grossa associazione pretende di mettere per prima la firma per poi organizzare la propria festa serale) sono allarmanti segnali di un movimento che preferisce farsi una guerra fratricida per spartirsi piccoli feudi di potere, piuttosto che unirsi per rivendicare serenamente l'uguaglianza. Un'uguaglianza che non può più e non deve, a mio modesto avviso, partire dalla rivendicazione di una tanto sbandierata quanto incomprensibile identità omosessuale, ma dal diritto costituzionale di ogni persona ad veder riconosciuta la propria dignità, di non essere ostacolata nello sviluppo della propria personalità, di pretendere che la repubblica rimuova gli ostacoli che si frappongono tra un cittadino e la sua cittadinanza. Noi non dobbiamo chiedere il matrimonio in quanto omosessuali, ma in quanto persone. Dobbiamo piantarla di fare Pride in concorrenza reciproca e privi di senso, con carri pieni di tette e culi, perché la legittimissima provocazione degli anni '60 non provoca più nessuno, ma semmai al contrario rinsalda quello stereotipo che i giornalisti sono lieti di scovare (riprendendo non la maggioranza delle persone ma i 2 o 3 stereotipi che servono loro per parlare di froci). Mi chiedo e chiedo che orgoglio: ci
può essere in un paese in cui non ci sono diritti civili, c'è
una fortissima omofobia, e trionfa la doppia morale cattolica: in piedi
di fronte all'altare e in ginocchio nel buio del confessionale?...
Io penso che la rivoluzione si faccia cominciando con una rivoluzione del pensiero. Penso che si faccia partendo dalla propria vita, dalla propria famiglia, dai propri amici, dai propri colleghi... Un mister gay che, appena eletto, dichiara di non aver fatto coming out non è, forse, quel simbolo di liberazione che fa bene al movimento... Io credo che sia l'ora di fare una serena autocritica. L'ora di chiedersi perché in Italia non si è fatto nulla per far entrare i gender studies in ambito accademico. Perché un premio di tesi sul genere viene assegnato ad una tesi che si chiama: Studio di un gruppo di lesbiche in Toscana, titolo che sembra vicino ad alcune teorie sull'isolazionismo culturale e che sembra coevo agli studi di Margaret Mead sulle culture di gruppo. Io credo che sia il momento di chiedersi se è giusto che ai Pride prenda la parola una persona che urla: "Il Papa è frocio" piuttosto di urlare: "Il Papa e la chiesa sono vergognosamente omofobi, quindi faremo causa ai signori cardinali che offendono la nostra dignità di persone". Penso allo shock culturale che avrebbe un Pride stile anni 30... con le trans e le drag in bellissimi costumi d'epoca, i figaccioni nelle sensuali uniformi naziste, e molti altri dietro il filo spinato con triangoli rosa e neri e divise a strisce. Non sarebbe forse un messaggio forte e d'impatto? Non sarebbe un modo molto serio ma anche molto ironico di pretendere dignità? Come farebbe la stampa di regime a trovare il solito dissenso retorico e ipocrita sul costume degenerato dei gay? Sarebbe l'ora di abbandonare tutte le trasmissioni Rai che censurano un cittadino perché ha un'opinione sul pensiero e la politica del Papa e di chiedere che fine ha fatto il pluralismo... ma forse la mia è solo un'utopia che ho voluto condividere con lei per la stima e il rispetto che le porgo. mi scuso per il disturbo e lo stile affannoso, la ringrazio molto e la saluto, Stefano F. |
Caro Stefano,
sono d'accordo con te sulle analisi politiche. Poi però, quando si passa alle proposte, qualche perplessità il tuo punto di vista me lo lascia.
Cosa vuol dire infatti che "Noi non dobbiamo
chiedere il matrimonio in quanto omosessuali, ma in quanto persone"?
Dunque, se lo chiediamo in quanto omosessuali, ammettiamo che gli omosessuali
persone non lo sono? Proprio come affermano i nostri nemici? Bisogna fare
molta attenzione, quando si ragiona, a chiedersi se slogan scintillanti
che ci appaiono molto "avanzati" non siano per caso farina del sacco dei
nostri nemici.
Noi il matrimonio lo chiediamo in quanto omosessuali
perché
in quanto omosessuali noi siamo persone. Punto.
Insomma, non proprio tutti i punti che ti lasciano
perplesso nel movimento gay sono privi di motivazioni...
Lo stesso dicasi per il Pride. Concordo con te sul fatto che l'insopportabile rissa perpetua per strapparsi i clienti alle feste danzanti finali. Ma al solito ci troviamo a discutere su cosa debba essere, o non essere, il Pride.
Ora, io non lo so cosa debba essere. Non mi interessa mettermi la gonna, e neppure andare in giro nudo per la città. Ma all'idea di pubblicare dei dress codes, come qualcuno va proponendo da anni di fare, mi viene l'orticaria. Di sicuro so cosa non deve essere un Pride: un'occasione per irreggimentare la gente. Una manifestazione in cui tutti vestono sobriamente di sacco e camminano compunti e senza dare scandalo non è un Pride: è una processione della confraternita della Buona Morte.
Mi sgolo da anni per fare capire che il problema
coi Pride non è dato dalle dieci trans brasiliane che vengono ad
esibire nude le tette di silicone che tanto sono costate alle loro finanze.
Dopo tutto sono dieci su centomila, e i Pride è loro come nostro.
Il problema sono i giornalisti che si piazzano
solo davanti a quelle dieci, e non riprendono null'altro che quello.
Ora, visto che questo
fenomeno ha ragioni politiche ben precise (dare un'immagina baracconesca
del Pride, oscurando completamente i contenuti politici di rivendicazione),
credo che gli organizzatori dovrebbero porsi il problema.
Con un servizio stampa più efficiente
di quelli raffazzonati fino ad oggi. E con un briciolo di servizio d'ordine
che blocchi quei due o tre, che non mancano mai ogni anno, che vengono
al Pride solo per togliersi le mutande di dosso.
Non va fatto per reprimere, ma perché (1) smutandarsi per strada è un reato, e qui o si opta per la disobbedienza civile (e se lo si fa, ci sto anche io, però prima mi si spiega perché e per ottenere cosa devo farmi arrestare per smutandamento) e ci si fa arrestare tutti, oppure non si capisce a cosa ci serva il fatto che venga commesso, e (2) il nudismo è una causa nobile e interessante, ma il nostro è un Gay Pride. Siamo in piazza in quanto gay, non in quanto persone (daccapo!). Quindi se i nudisti desiderano organizzare manifestazioni loro, possono chiederci di aderire e senz'altro molti di noi aderiranno, però loro si facciano le loro manifestazioni, perché questa è la nostra, e porta avanti le nostre rivendicazioni e non quelle degli altri. Come avviene per qualsiasi altra manifestazione.
Come vedi, insomma, a volerci ragionare gli strumenti
per venirne a capo senza ridurci alla processione della Confraternita della
Buona Morte li abbiamo.
L'unico problema è che per usarli dovremmo
voler darci da fare, lavorare... ed è quello che molto non vogliono
fare...
Devo comunque dire che nella generazione più giovane vedo atteggiamenti di maggiore impegno politico ed attivismo. E' finito il tempo della "X Generation", la generazione venuta dopo la mia, quella dei trenta-quarantenni cresciuti a miti thatcheriani, mitologie di business ed iper-liberismo spinto.
Io li giudico irrecuperabili, perché sono figli un "pensiero unico" che non ammette la possibilità di altri pensieri. Oggi come oggi, dopo il fallimento della loro visione del mondo, possono solo o insistere contro ogni evidenza e ragionevolezza, rendendosi patetici, oppure ammettere di avere sbagliato tutto, e a 40/45 anni non è per niente facile. Qualcuno ce la farà, ma la massa di loro scivolerà nel cinismo e nel nichilismo ("se non era vero ciò in cui credevo io, allora nulla è vero!") che leggi nei commenti dei lettori su un sito come Notiziegay.com, che è il portabandiera di questa generazione che ha fallito.
Invece tra i ventenni (non solo quelli gay, chiaro), che realisticamente vedono davanti a sé solo un futuro di precariato e incertezze, e che ai miti neoliberisti e neocon non credono più, la voglia di buttare all'aria il piatto è ogni anno maggiore. Quindi io credo che il piatto stia per saltare, nella società, ma anche nel mondo gay.
L'elezione di Paolo Patanè e Luca Trentini ai vertici di Arcigay, con una maggioranza trionfale, è a mio parere un segnale di tale voglia di cambiamento. Poi nessuno di loro due è Gesù e quindi non avremo nessun miracolo, da loro, ma ultimamente sono ottimista, certo molto più ottimista di tre o quattro anni fa.
Inoltre la nascita, come tu stesso segnali, di
realtà come Rete
Lenford, offre finalmente alternative e stimoli anche alle
balene arenate come Arcigay. Che se non si muoveranno per tornare in acqua,
semplicemente, moriranno soffocate. Lasciando uno spazio ecologico a disposizione
dei nuovi arrivati.
Quindi sono ottimista.
Ciao.
G. Dall'Orto.
Oltre i limiti
e le barriere
27/4/2010 Gentile Giovanni,
Volevo solo precisare che con la frase "Noi non dobbiamo chiedere il matrimonio in quanto omosessuali ma in quanto persone" non volevo assolutamente negare il valore dell'orientamento sessuale... ma credo che l'identità di ogni individuo sia estremamente complessa e ridurla al mero orientamento sessuale mi pare limitante. So bene che a livello storico, nel
contesto occidentale, la costruzione di un "soggetto omosessuale" è
stato un passo indispensabile e necessario a demedicalizzare il termine
e costruire una cultura a servizio di un gruppo sociale organizzato.
È vero che ogni contesto sociale va valutato secondo la propria cultura ma mi pare che la sessualizzazione-sessuofobia del '900 derivi da un certo scientismo medico e psicanalitico, che ha creato ed imposto degli idealtipi per separa le persone a gruppi. La bisessualità universale di Freud e quella sperimentale del rapporto Kinsey mi sembrano più convincenti. Con questo non voglio affatto negare
che esistano omosessuali o eterosessuali puri, per così dire (io
stesso finora ho sempre provato attrazione per gli uomini e avuto relazioni
esclusivemente col sesso maschile) ma penso che sarebbe culturalmente stimolante
superare un po' la nostra ossessiva identificazione sessuale col genere
e con l'orientamento.
Rileggendo queste righe mi rendo conto di non essere stato affatto chiaro e me ne scuso, sono discorsi molto complessi e delicati... ma a volte temo che le lettere che s'aggiungono al nostro pluralissimo acronimo fungano più da barriera che da ponte tra punti di vista diversi in realtà sempre più fluide e multiculturali. Mi spaventa un certo separatismo che serpeggia tra lesbiche e gay, tra femministe e postfemministe, tra queer e omosessuali, tra transessuali e transgender e tutti gli altri e mi spaventano soprattutto le madri di tutte le dicotomie: donammo (maschio-femmina), etero-gay. Sono dicotomie che odio perché disegnano confini invalicabili reificando l'identità come fosse un monolite statico. Io preferisco il movimento alla stasi e la relazione, anzi le relazioni alla cesura, e non condivido le teorie sul relativismo culturale quando segnano mura tra popoli e società diversi o, come nel nostro caso, tra persone in uno stesso contesto. Mi piacerebbe che per abbattere il
pensiero unico si potesse costruire un fronte di rivendicazione ampio il
più possibile che raccolga coloro che vengono marginalizzati e stigmatizzati
in quanto donne, in quanto etnicamente diversi, in quanto ragazzi che amano
ragazzi o ragazze che amano ragazze, persone che non si riconosco nella
codificazione sessuale attribuita loro da un timbro dell'anagrafe.
Quanto al pride, Lei ha ragione e la ringrazio perché la sua analisi mi ha dato modo di riflettere molto. Spero di non annoiarla troppo e di essere riuscito a chiarire il mio, sempre parziale, punto di vista sull'uguaglianza e sull'identità. Ancora grazie per l'attenzione che le assicuro non è così comune trovare in altri interlocutori nel movimento. Buona giornata
|
Gentile Stefano, la ringrazio per la sua replica.
Purtroppo noi non dissentiamo solo su dettagli,
ma proprio nelle categorie di lettura della realtà.
Che nel suo caso partono palesemente dai dogmi
della cosiddetta queer theory, della quale si dà
il caso io sia un accanito oppositore. Perché? Perché sono
contrario a tutti i dogmi. E perché la queer theory dice
cose estremametne conservatrici con un linguaggio che pretende d'essere
molto innovatore e liberatorio.
A iniziare dal "pericolo" dell'assunzione di etichette
identitarie, magari basato, per nobilitarlo, sul mito di un'antichità
greca, o di un favoloso "altrove" precoloniale, che per motivi non meglio
specificati sarebbero stati "liberi" da identità omosessuali
ed eterosessuali (il che è semplicemente falso, come lo è
il mito della presunta "invenzione" ottocentesca dell'omosessuale).
Cosa
pensi io delle identità omosessuali l'ho scritto da molti anni,
e spesso ripetuto, e ancora ripetuto, e ripetuto di nuovo, quindi mi scuserà
se la rimando a quanto ho già scritto.
Delle sue affermazioni storiche penso invece che
siano semplicemente infondate e non corroborate affatto dai (molti) documenti
storici che ho letto, però qui non abbiamo il modo e lo spazio di
metterci a discutere sul perché.
Anche qui la invito a voler sfogliare
qualche documento storico fra quelli che ho messo online nel mio sito.
Non so se si convincerà della giustezza dei miei commenti che li
accompagnano, ma quale che sia il risultato, in ogni caso non posso cercare
di convincere personalmente, per email, tre milioni di persone omosessuali
italiane, una per una... Mi spiace. Quel che posso fare attraverso il mio
sito provo a farlo, per il resto... non sono Gesù e i miracoli non
li faccio.
Quanto a ciò che lei definisce "la nostra ossessiva identificazione sessuale col genere e con l'orientamento", auspicandone il superamento, devo confessarle che essa è semmai per me la base stessa della mia identità e integrità personale in quanto essere umano sessuato.
Come ho avuto modo di scrivere, "non esistono
gerarchie nell'essere". Io non smetto di essere persona quando
dico d'essere gay, e non smetto d'essere frocio neppure quando mi lavo
i denti.
L'idea che sta alla base del suo concetto di "superamento"
è in effetti un'idea reazionaria, che postula gerarchie precise
nei modi d'essere, alcuni dei quali superiori, altri inferiori: "Essere
persona è meglio che essere soltanto gay", ed "essere soltanto
gay è meno che essere persona".
Mi spiace, non m'importa con quanti fiocchetti
progressisti venga incartata quest'idea reazionaria, a me importa solo
che quel che mi dice quest'idea, alla fine, è che essere gay
è inferiore.
Specie quando verifico cosa intendano per "essere
persona" gli eterosessuali, e scopro che nessuno di loro si sogna
minimamente di scindere la propria eterosessualità dal suo "essere
persona".
Se quindi solo i gay sono ossessionati da questa
"rivoluzionario" obiettivo, e contro il loro stesso interesse, il sospetto
che non si tratti di un'idea loro, bensì di un'idea insinuata e
coltivata dalla società omofoba, non solo lo nutrirò, ma
anzi lo considererò come più che un semplice sospetto...
Lo stesso dicasi della sua paura della sottolineatura
delle differenze di genere. Che per certi aspetti sono fondate biologicamente,
addirittura (è solo la valutazione che se ne dà ad
avere una base esclusivamente sociale, convenzionale, relativa, però
ciò detto un uomo non è una donna e una donna non solo non
è, ma non ha nessun dovere di essere, un uomo).
Il suo tentativo di negarlo serve solo a negare,
alla lunga, l'oppressione delle donne: le differenze fra donne ed uomini
sono artificiali, inesistenti, basta allargare la mente per vederle sparire.
No che non basta, invece. Una donna che
deve allattare un neonato è oggettivamente svantaggiata nel
mantenimento o nella ricerca di un posto di lavoro. E il semplice fatto
che un giorno potrebbe doverlo fare, la danneggia nella carriera. E così
via.
Altro che artificiali, altro che inesistenti.
Sono veri "soffitti di vetro" che devono essere riconosciuti, se vogliamo
costruire "discriminazioni positive" per controbilanciare quelle negative
già esistenti.
Troppo comodo gridare "liberi tutti! Da oggi
qualsiasi donna, se lo vuole, può diventare presidentessa dell'Arabia
Saudita!". No che non può: questa "genialata" serve solo
a poter dire, dopo qualche tempo, con aria compunta, "Se nessuna donna
è mai diventata presidentessa dell'Arabia saudita è forse
perché le donne di quel paese non lo vogliono veramente, non lo
vogliono abbastanza, oppure forse non sono all'altezza del compito"...
In altre parole, perché sono inferiori...
"Non sono io ad essere misogino, sono le donne
ad essere troppo effeminate"...
E così via.
Per farla breve, il mio punto di vista è
che dietro alcune delle sue affermazioni, sotto una vernice progressista,
si nasconda un nucleo conservatore e perfino, a tratti, omofobo.
Nucleo che lei, ne sono certo, non ha affatto assorbito
intenzionalmente. Questo nucleo è semmai entrato in lei veicolato
dalle parole d'ordine progressiste e rivoluzionarie del
dogma della queer theory.
Ma proprio per questo mi pare valga la pena di
sottolineare quanto io trovo d'inaccettabile nelle sue affermazioni.
Io dei limiti non ho paura. Le barriere le voglio
e le esigo.
Voglio che la porta della mia camera da letto
sia una barriera invalicabile a preti, polizie e psichiatri tutti.
Voglio, pretendo, esigo questo confine
e questa barriera.
Il suo mondo "senza barriere" non mi pare affatto
un'utopia bensì un incubo.
Un mondo senza confini è un mondo in cui
il confine fra lei e le sue idee e me e le mie non esiste. E se mi concede,
rivendico il diritto di essere me stesso e non, obbligatoriamente, lei.
Mi piace essere me e non lei, esigo il rispetto della barriera fra me e
lei e no, non mi sento affatto in colpa per questo, anzi...
Rivendico il diritto alla privacy,
voglio che ci sia attorno a me un filo spinato elettrificato e le torrette
con su le guardie che sparano a chi la vuole violare.
E così via, e così via.
Il suo mondo senza limiti e barriere, glielo assicuro, non mi attrae affatto. Perché dietro le spalle della sua sincerità e della sua buona volontà vedo già spiare i volti di coloro che, per il mio bene, sapendo meglio di me cosa è bene per me, vogliono "aiutarmi" ad "uscire dai miei limiti", aprendomi alle loro Verità superiori, alle loro identità superiori, smantellando le barriere, i limiti e i confini... che però guarda caso fino ad oggi avevano protetto la mia identità "diversa", ed orgogliosa di essere tale.
Ecco perché il movimento a cui lei aspira
a me non interessa. A lei appare come una meravigliosa con-fusione fra
diverse diversità, a me invece pare solo una marmellata con
così tanti sapori che alla fine non ne se ne percepisce più
alcuno.
Io non sono fra coloro "che sono disposti a
spogliarsi della differenza intesa come separazione". Io dalla differenza
(e se necessaria per mantenerla viva, anche dalla separazione) non ho alcuna
volontà di spogliarmi. Se lo facessi, sarei l'unico nudo e al freddo
in un mondo di persone vestite, e non vedo perché dovrei farlo.
Frocio sì, cretino no.
La cooperazione, le alleanze, sono possibili solo
partendo dal rispetto della diversità assoluta che ogni essere
umano incarna, quella che fa dire a ciascuno di noi "Io sono
io".
Lei mira alla fusione degli "io" degli esseri
umani? Ovviamente rispetto le sue idee e la sua aspirazione, lei mi conceda
solo di obiettare che dal mio personale punto di vista quest'aspirazione
è la base del totalitarismo.
Lo ripeto, rispetto il suo diritto a pensarla
in questo modo, non mi piace però se lei cerca di spacciar questa
sua aspirazione (per me) totalitaria, per lotta al "pensiero unico".
A mio modo di vedere semmai questa è la matrice, la madre
del pensiero unico.
Solo rispettando e valorizzando le differenze,
e quindi le differenti identità, sarà possibile schiacciare
le subdole sirene del pensiero unico, che ci vorrebbero tutti omologati
in un'unica marmellata senza sapore in nome della rinuncia ai "limiti"
alle "barriere" e agli "steccati".
Tutti assieme nella stessa mostarda, tutti al
sapore di mostarda, nessuno in grado di sapere quale sia il proprio sapore...
No grazie! A me la diversità altrui
non fa paura.
Ecco perché non ho paura di cercare di
insegnare agli altri a non avere paura della mia...
Arrivato alla fine, mi scuso con lei per la durezza
della mia replica.
Ho usato questo tono privo di giri di parole ed
ipocrisie perché penso che lei sia in buona fede e sincero. Se non
lo avessi pensato, non avrei "sprecato" il mio tempo e mi sarei limitato
a farle notare che alle cose che mi dice ho già dato risposta da
almeno vent'anni, invitandola a leggere il mio sito, buonasera e tanti
saluti.
Ho risposto in questo modo diretto anche perché
penso che forse questa mia provocazione potrebbe essere uno stimolo a rivedere
criticamente alcune delle certezze che lei butta sul tavolo, e che non
sono solo sue, ma anzi sono fin troppo diffuse in certi ambienti del mondo
lgbt...
In altre parole, parlavo a lei, ma solo perché
suocera intendesse...
Nella sua prima mail lei mi lodava per le mie posizioni
"fuori dal coro". Forse non s'immaginava che avrebbe dovuto subire un vaglio
delle sue stesse mail da un'ottica decisamente "fuori dal coro".
Non so dire se ora come ora lei ne sarà
contento.
Temo di no.
Me ne dispiaccio, ma non posso farci nulla...
mi viene spontaneo farlo...
"Io
non sono cattivo... è che mi disegnano così"...
I miei migliori saluti.
Giovanni Dall'Orto