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INSEGUENDO VON GLOEDEN

Biografia per immagini di un fotografo e della sua città.
 
di: Giovanni Dall'Orto

[Fare clic qui per l'indice delle pagine su Gloeden nel presente sito].
 
 
Indice:  Von Gloeden era un fotografo, dunque nella condizione ideale per lasciare un ampio corredo d'immagini a ricordo della storia propria e di quanti lo circondarono. 
Per ricostruire la sua figura, e quel pezzo di storia gay, ma non soltanto, che si svolse a Taormina nei decenni in cui Gloeden ci visse, ho pensato che il metodo migliore fosse un "tributo in immagini". Grazie a due viaggi recenti a Taormina, più che raccontarvi una storia posso mostrarvela. 

Un ringraziamento a Malcom Gain e Jacques Desse di Parigi, che hanno messo a mia disposizione le loro collezioni gloedeniane e la loro consulenza per scrivere queste pagine. 


I ritratti di Gloeden (1856-1931) [1]. 

Nato in Germania, Wilhelm von Gloeden (1856-1931) frequentò per qualche tempo la scuola d'arte per diventare pittore, ma non riuscì a completare gli studi perché colpito dalla tubercolosi.  
Su suggerimento del collega d'arte Otto Geleng, il ventiduenne Wilhelm partì alla volta di Taormina, nel 1878, per cercare di curarsi.  
Guarito, si sarebbe stabilito nella località che lo aveva salvato, fino alla morte. 

Nei primi anni del suo soggiorno Gloeden viaggiò per l'Italia e per un certo periodo visse addirittura a Francavilla a Mare assieme a Francesco Paolo Michetti, pittore affermato nonché fotografo dilettante, che secondo la stessa testimonianza di Gloeden lo incoraggiò a proseguire il lavoro iniziato nel campo della fotografia, salutandolo (e a ragione, in questo caso) come vero artista (Matteucci, p. 401 [2]). Diverse foto di questo periodo, riconoscibili per la presenza di modelli dichiaratamente abruzzesi, stanno riemergendo da riviste a cui erano state inviate da Gloeden stesso per illustrare articoli folcloristico-antropologici sui "popoli del Sud". 

Sia prima che dopo aver preso casa a Taormina Gloeden soggiornò a Napoli, come vedremo più avanti, intrattenendo una fitta collaborazione col cugino e fotografo di nudo maschile  Wilhelm von Plüschow  (1852-1930)
I viaggi a Napoli (alcuni dei quali in compagnia di modelli taorminesi, che appaiono in foto di Plueschow o fotografati a Pompei e Napoli) dovrebbero avere avuto fine, attorno al 1894 o 1895, per due avvenimenti coincidenti: il trasloco di Plueschow a Roma entro l'inizio del 1895, e il tracollo finanziario del patrigno di Gloeden, che causò la sparizione della rendita che gli permetteva di vivere con agio (e di viaggiare a volontà). 

Gloeden era nato infatti da una famiglia ricca e introdotta a Corte, anche se non tanto nobile quanto egli pretendeva presentandosi come "barone" o "conte": lui e suo padre non appaiono infatti in alcun albero genealogico dei von Glöden.  
E non certo per dimenticanza: Peyrefitte (p. 143), ci fa sapere che il titolo fu de courtoisie, ovvero concesso (secondo una tradizione prussiana e anche inglese) in soprannumero rispetto al numero massimo che ogni signore feudale dell'impero tedesco aveva il diritto di concedere.  
Un titolo decorativo, dunque, ma privo di valore effettivo in Germania, a differenza di quello della madre, discendente dell'aristocrazia baronale degli Hammerstein (lo stesso Plueschow, del resto, aveva il cognome nobiliare ma non il titolo, dato che il suo ramo della famiglia discendeva da un figlio illegittimo). 

Gloeden a Taormina visse oziosamente di rendita fino al 1895, dilettandosi di pittura (con risultati alquanto scarsi) e fotografia (con risultati pregevoli).  
Quando però nel 1895 il patrigno si vide confiscare tutti i beni e finì in carcere, quello che era stato un hobby divenne per necessità - all'età di quarant'anni - una professione.  
Il resto è storia. 

Di Gloeden è stato scritto: 

Cinquant'anni di vita taorminese ruotano attorno a questo singolare personaggio: Roger Peyrefitte ne ha raccontato in parte la storia nel romanzo Eccentrici amori: prima che per i nudi degli efebi agghindati con corone di lauro, Gloeden fu famoso per le sue stranezze, le bizzarrie di vita. Amava, per esempio, fare in casa il bagno con acqua di mare, e ogni giorno schiere di ragazzotti (ben pagati) rovesciavano nella vasca grossi barili riempiti <al mare sottostante la collina di Taormina> e trasportati quassù a spalla.  (...) 
I "peccati" di Taormina, sui quali si è tanto fantasticato, sono nati con lui. Le notti di follia in casa Gloeden (per soli uomini, è il caso di ricordarlo) stavano alla pari con quelle che a Capri divoravano l'esistenza di Fredrich Krupp. (...)  
La quieta Taormina (...) fu letteralmente sconvolta da questa ondata di follia gay (per usare un termine di moda oggi). (Saglimbeni, pp. 32-33).
     
    Autoritratto di Wilhelm von Gloeden dipinto verso il 1880/85.
    Il celebre autoritratto di Gloeden come "Nazareno", del 1890 circa.
    Autoritratto di Gloeden in travestimento da arabo, del 1890 circa.
    Autoritratto di Gloeden travestito in abiti turcheschi, circa 1890.
    Autoritratto di Gloeden travestito da devoto cattolico in processione (Gloeden era protestante!), attorno al 1890. Il sacerdote che gli è accanto è don Intelisano, parroco di Castelmola e suo amico intimo.
    Gloeden 35enne nel celebre autoritratto "ufficiale", per la rivista "Photographische Correspondenz", del 1891.
    Gloeden assieme ad amici nel 1894, all'inizio del periodo di massimo fulgore della sua vita.
    Foto di anonimo, dell'ultimo decennio del XIX secolo: il fotografo Giovanni Crupi (vedi sotto) e Wilhelm von Gloeden sulla scalinata della villa di Gloeden a Taormina.
    Gloeden, un po' dandy, in compagnia ancora di don Giuseppe Intelisano, parroco di Castelmola. Dettaglio da una foto di Giovanni Crupi.
    Un secondo scatto di Crupi a Gloeden in compagnia di don Intelisano. L'immagine è stata colorita a mano in un secondo tempo per trarne una cartolina.
    Dettaglio dall'originale dell'immagine precedente.
    Gloeden in un ritratto (giovanile!) pubblicato dalla rivista "Varietas" nel 1910, al culmine del successo.
    Autoritratto di Gloeden
    Autoritratto di Gloeden come brigante, nel 1899, nel chiostro del San Domenico. Esiste un altro autoritratto simile a questo, ma inedito, nella collezione di Nino Malambrì, a Taormina.
    Gloeden senza barba e con un bizzarro sombrero, negli anni o immediatamente precedenti o (più probabilmente) seguenti la prima guerra mondiale.
    L'ultimo autoritratto di Gloeden che conosciamo, usato anche per la sua tomba.
    Gloeden ritratto da un anonimo nel suo giardino, poco prima della morte, avvenuta nel 1931.
     
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Il contemporanei di Gloeden. 

1) Otto Geleng (1843-1939) 

Il pittore tedesco di paesaggi nonché conte Otto Geleng (pronuncia: "ghéleng") fece più di ogni altro fra i suoi connazionali per lanciare Taormina (dove arrivò nel 1863, innamorandosene a tal punto che qui si sposò, visse il resto dei suoi giorni e morì) come paradiso terrestre e meta turistica ideale.  
Fu lui ad agire deliberatamente per "lanciare" il turismo a Taormina, contribuendo a popolarizzare fra i suoi amici l'Hotel Timeo, già esistente nel 1855 in vicolo La Floresta, ma spostato nel 1865 in un prestigioso (e vandalico...) edificio addossato proprio al Teatro Greco.  
E fu lui nel 1878 ad invitare il ventiduenne Gloeden, colpito da tubercolosi, a provare a curarsi nel clima salubre di Taormina... dove effettivamente Gloeden guarì. 

Tuttavia Gloeden sembrò trovare in loco un paradiso terrestre di un tipo che l'eterosessuale Geleng non aveva affatto preventivato. Il buon Ottone, che cogli anni diventava sempre più cattolico e sempre più reazionariamente rigido, iniziò così a criticare pubblicamente lo stile di vita omosessuale di Gloeden, il quale per tutta risposta lo querelò (assieme ad altri) per diffamazione. 

Gloeden vinse la causa (il 31 luglio 1894), ma solo perché assai prudentemente si era ben guardato dal concedere la "ampia facoltà di prova" ai querelati (cioè di concedere la rinuncia alla querela se i querelati fossero stati capaci di provare che quanto dicevano era vero [3]. 

Ecco quel che racconta dell'episodio "Il nuovo imparziale" in data 1 agosto 1894: 

La "Gazzetta di Messina" nel suo n. 177 riferisce di una dichiarazione fatta in favore del chiarissimo sig. W. von Gloeden dai signori Adolfo Werther Fischer, Otto e Angelo Gelenz (sic), Pancrazio Siligato, che erano stati con citazione direttissima querelati dal sig. Gloeden per diffamazione. 

Il fatto è vero: ma ora che si è avuta tanta fretta di divulgarlo, bisogna per debito di lealtà che sia esso chiarito nei suoi precedenti e nella sua conclusione. 
Il chiarissimo von Gloeden il giorno 11 ultimo luglio, querelava i suddetti signori, perché si erano permessi di propalare che il querelante (il chiarissimo signor von Gloeden) commetteva delle azioni infamanti ed oscene determinate dal vizio della sodomia. 

Per legge l'imputato del delitto di diffamazione non è ammesso a provare, a sua discolpa, la verità, o la notorietà del fatto attribuito alla persona offesa: Né il querelante (il chiarissimo von Gloeden), che pur ne ha facoltà per legge, si piacque ammettere i querelanti alla prova dei fatti. 
Per tanto in tribunale non si sarebbe potuto discutere intorno alla verità dello addebito e gentiluomini provati, ch'erano stati mossi, in buona fede, da un nobile ed elevato sentimento di pubblica moralità, avrebbero dovuto passare per diffamatori volgari. 

Chi ha coscienza sicura di sé, e va innanzi il magistrato per tutelare l'onor suo, deve volere una sentenza che riconosca la sua onorabilità, dimostrando la insussistenza delle accuse. Ma, nel modo come si è regolato il signor Von Gloeden, questo risultato sarebbe stato impossibile e si sarebbe avuto uno scandalo inutile e nocivo per tutti. 

A scongiurare fin l'ombra dello scandalo due benemeriti cittadini, che furono anche coadiuvati in Messina dall'opera conciliante ed onesta degli avvocati del querelante e dei querelati, riuscirono ad ottenere, da questi ultimi, la dichiarazione, che, come si è detto sopra, fu pubblicata dalla "Gazzetta di Messina". 
Con questa dichiarazione, che il chiarissimo signor von Gloeden ritenne di competa riparazione, si ebbe la desistenza della querela, dopo che dai querelati si pagò al signor Gloeden la sommetta di L. 896!!! 

Uno degli interessati in questa dolorosa vertenza, il signor Adolfo Werther Ficher (sic), che solo o in compagnia della sua nobile e bella signora, passa varii mesi dell'anno qui, ove possiede un gaio villino, è partito da varii giorni per Vienna.[3].

Su Geleng si può leggere anche il capitolo ("La scoperta di Taormina", pp. 61-65) che gli dedica il libro di Roccuzzo. 

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2a) Giuseppe Bruno (1836-1904) 
 
 
Ritratto di Giuseppe Bruno (collezione privata).
Il suo timbro, in cui si definisce "chimico-fotografo"
"Porta dei cappuccinini". Uno scatto di Bruno, del 1890.
 
Il primo fotografo professionale attivo (dal 1875 circa) a Taormina fu Giuseppe Bruno (1836-1904), un onesto anche se oggi dimenticato autore di nitide ed assai eleganti vedute paesaggistiche (Mirisola, p. 19). 

Di formazione ingegnere, sposò una donna facoltosa di Capizzi e, potendo vivere di rendita, si dedicò alla sua passione, la fotografia, che era allora un'arte relativamente "nuova" e piuttosto complessa dal punto di vista tecnico. Amò sperimentare nelle tecniche di impressione e stampa delle immagini, arrivando a firmarsi "chimico-fotografo". Fu lui ad insegnare la fotografia (all'epoca un'arte alquanto complicata)  a Gloeden, al quale trasmise la passione per gli esperimenti con le tecniche d'impressione e stampa.. Nonché, con ogni verosimiglianza, a Giovanni Crupi.

La sua produzione fu dedicata soprattutto ai paesaggi e ai monumenti della zona, con risultati particolarmente felici nell'inserimento della figura umana in contesti paesaggistici. Essa è sempre tecnicamente di alto livello, e pur spingendosi raramente al di là di una nitida documentazione dei luoghi ritratti, rivela un gusto sicuro e una competenza tecnica di tutto rispetto.

D'altro canto, i suoi ritratti di contadini siciliani rivelano un'ottica nettamente classista, nella quale è assente la denuncia sociale. I segnali della povertà (come nei bambini luridi, vestiti di cenci stracciati) entrano a far parte d'un generico "pittoresco" turistico, che suscita curiosità e magari sconcerto, ma difficilmente solidarietà umana, in quanto i suoi modelli ostentano un abbrutimento totale, senza dare alcun segnale di tentare almeno di raggiungere una qualche dignità e riscatto. L'atteggiamento di Bruno in questi ritratti è insomma troppo spesso quello della foto-ricordo del visitatore d'uno zoo, e non quello di chi intende documentare ai fini di una denuncia sociale.

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2b) Giovanni Crupi (1859-1925) 
 
Foto di anonimo, dell'ultimo decennio del XIX secolo, di Giovanni Crupi e Wilhelm von Gloeden sulla scalinata della villa di Gloeden a Taormina.
Giovanni Crupi ritratto (con ogni verosimiglianza da Gloeden), nel giardino della casa di Wilhelm von Gloeden. Prima del 1899.
 
Non sappiamo da chi il fotografo Giovanni Crupi abbia appreso la sua arte: è stato ipotizzato che il suo maestro sia stato Giuseppe Bruno, ma non sono per ora emerse prove né a favore né contro questa ipotesi. 

Crupi, anch'egli ricco di famiglia, viveva di rendita, e per lui la fotografia fu all'inizio (proprio come per Gloeden) solo un hobby: fu solo nel 1885 che egli la trasformò in un'attività.  
Fu abbastanza naturale che facesse amicizia con Gloeden, che condivideva il suo stesso hobby, che all'epoca era riservato ad una élite molto ristretta. La frequentazione tra i due artisti è documentata dalle foto che nel corso degli anni si scattarono l'un l'altro.  

Gloeden di Crupi fu dunque amico e collega. E qualcuno (Falzone Barbarò, p. 22) aggiunge anche "allievo", tuttavia Gloeden stesso affermò nel 1898 in uno scritto autobiografico di avere appreso i rudimenti dell'arte fotografica da Giuseppe Bruno; dunque sulla questione non sono possibili dubbi.[3bis]. 
Non si può negare però che nella produzione paesaggistica i due amici si influenzarono a vicenda, al punto che i paesaggi non firmati dei due amici possono essere facilmente confusi. 

Il rapporto fra i due artisti/amici/concorrenti è complicato dal fatto che una parte delle immagini di Gloeden riporta in basso la medesima "banda nera" usata in tutte le sue foto da Crupi, il che fa sorgere dubbi sulla reale paternità delle immagini del catalogo gloedeniano con questa cartteristica (rimando chi fosse interessato al problema allo scritto che ho dedicato al catalogo delle opere di Gloeden). 
 

Un esempio delle foto "B" di Gloeden. Si nota chiaramente che la firma è stata aggiunta solo in un secondo tempo, e che il numero di catalogo è stato modificato, con l'aggiunta di una "B", che è stata palesemente incollata in un secondo momento. 
(Fare clic per ingrandire).
 
Crupi, a seguito delle sue vicissitudini, espatriò, e nel 1899 aprì in Egitto uno studio fotografico vicino al Cairo, ad Heliopolis (Pohlmann, p. 15); un suo parente rilevò l'azienda (Mirisola, p. 23). Al suo ritorno in patria nel 1910 Crupi lo avrebbe assistito nella conduzione della ditta, ma senza riprendere più a fotografare (Mirisola, pp. 23 e 25). 
Dato curioso: Crupi sposò una damigella della baronessa Stempel, il cui figlio fu uno dei "baroni omosessuali" di Taormina e sarebbe stato l'informatore da cui Peyrefitte avrebbe tratto le informazioni su Gloeden che avrebbe usato per il suo romanzo breve. 

In età più avanzata Gloeden avrebbe avuto come assistenti (secondo Falzone Barbarò, p. 25), oltre a Pancrazio Buciunì, il sopra citato parente di Giovanni Crupi. (Per un lapsus Falzone Barbarò (p. 25) elenca fra gli assistenti di Gloeden proprio... Giovanni Crupi, che pure poche pagine prima aveva citato addirittura come suo maestro, tuttavia si tratta palesemente solo d'una svista).

Un catalogo cronologico della sue immagini è online qui.

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3) Wilhelm von Plüschow  (1852-1930) 
 

Presunto ritratto di Wilhelm von Plüschow sulla scala d'ingresso della casa di Gloeden a Taormina.
Presunto ritratto di Plüschow scattato da Gloeden a Taormina.
L'ingresso della villa di Gloeden alla fine del XIX secolo. Il personaggio seduto potrebbe essere Plüschow (l'identificazione non è certa).
 
Nella formazione artistica di Gloeden ebbe un ruolo anche il cugino (per parte di madre), Wilhelm von Plüschow, anch'egli fotografo, anch'egli omosessuale, ed anch'egli abitante in Italia.  

Abbiamo (forse!) di lui una foto dello stesso Gloeden [6], che ce lo mostra sulla scala d'ingresso della villa taorminese di Gloeden  mentre suona il mandolino, ed abbiamo anche foto di Plüschow che ritraggono modelli di Gloeden a Pompei o col Vesuvio sullo sfondo, nonché foto quasi uguali di Capri dei due fotografi; è quindi palese che i due cugini, fino al 1895, si frequentarono non poco. Anche se il fatto che nel 1895 Gloeden fu costretto a trasformarsi da fotografo dilettante in fotografo commerciale, e quindi in concorrente del cugino, sembra avere raffreddato i rapporti tra i due: l'ultimo lavoro comune risulta il servizio edito nel 1898 ma scattato a Pompei nell'appena scoperta "Casa dei Vettii", quindi attorno al 1896. In essa appare un modello taorminese di Gloeden. Dopodiché, più nulla. 

Se è vero che Gloeden non può non avere imparato dal cugino la nozione per cui le foto di nudo si potevano anche commerciare (invece di limitarsi ad esibirle in prestigiose mostre accademizzanti e su prestigiose riviste estetizzanti) oggi nessuno parlerebbe più di Plüschow come del maestro di Gloeden (come fece Nicolosi, p. 44).  
Ormai ci è chiaro il fatto che un rapporto maestro-allievo tra i due non ci fu mai. Anzi, perfino nelle foto scattate a Napoli la condivisione si limita in genere alle sole location, mentre i modelli raramente vengono scambiati (anche se qualche caso si verirfica), come rivelano i timbri sul retro, ognuno dei quali generalmente si accompagna solo a una parte dei modelli, e non all'altra. 
Da un lato, come ho già detto, la tecnica della fotografia Gloeden l'apprese da altri, dall'altro la sua ispirazione fu sempre diversa da quella del cugino. Il quale subì semmai lui l'influsso dei deliri arcadici di Gloeden, tanto da sperimentare in questo senso durante il periodo napoletano, mentre nel periodo romano avrebbe poi abbandonato le pastorellerie e l'accademismo di sapore gloedeniano, per evolversi verso un maggiore e robusto "realismo".  

Al contrario nulla impedisce che possa corrispondere al vero un'altra ipotesi, secondo cui potrebbe essere stato proprio Plüschow ad avere interessato il cugino, durante una sua visita a Napoli nel 1878, alla fotografia (che dopo tutto era ancora una forma d'arte relativamente nuova e piuttosto "di élite"). Lo stesso Gloeden conferma, in un suo scritto autobiografico del 1899, la data del 1878 come quella del suo primo interessamento alla fotografia.  
D'altro canto il 1878 è anche la data del trasferimento a Taormina, quindi l'ipotesi resta tale. 

Ben presto i nudi di Gloeden (che riuscì ad inventare un affascinante e idilliaco mondo di fantasia in cui ambientare i corpi nudi dei suoi ragazzi sottoproletari), superarono in qualità e in apprezzamento quelli di Plüschow, molto più carnale e sessualmente esplicito (Plüschow smerciò anche vera e propria pornografia, cosa che Gloeden non fece mai). Non a caso Plüschow conobbe il carcere e finì nel 1907 espulso dall'Italia per un brutto affare di prostituzione di minori, mentre Gloeden vi terminò i suoi giorni indisturbato. 

Di lui Vanzella ha scritto che: 

in Plüschow, storicamente antesignano del cugino, manca quell'ispirazione metafisica che spingeva Gloeden sulle tracce del mito, ad inseguire un'autentica estetica della purezza, e per quanto s'impegnasse nel calcarne le tracce, come un epigono qualunque, i risultati furono modesti. (Mirisola, pp. 33 e 35).
A mio parere la prima parte del giudizio è corretta, mentre sarebbe un errore passare da un estremo all'altro, e dopo averne fatto a torto il "maestro" fare di Plüschow, altrettanto a torto, un "imitatore" di Gloeden. 

Plüschow ebbe infatti una sua estetica ben distinta da quella del cugino, tanto da farci chiedere come sia stato possibile confondere nel dopoguerra la loro produzione. Quando Plüschow produce, che so, la foto d'un ragazzo nudo visibilmente "contemporaneo" (cosa che nel suo discepolo Vincenzo Galdi si spingerà fino al punto d'introdurre una... bicicletta in una foto di nudo!), non lo fa certo certo perché non sia capace di usare anche lui rose, pàmpini e sandaletti greci. Al contrario, lo fa perché si dimostra un osservatore della sua contemporaneità (e dei fantasmi erotici del suo mercato) più attento di quanto non lo sia Gloeden.  
Alcune foto di Plüschow rivelano addirittura l'apertura a chiari influssi art nouveau, del tutto impercettibili invece nell'opera di Gloeden, che resta inchiodato al classicismo accademico di metà Ottocento e al "pittorialismo fotografico" per la sua intera esistenza, al punto che nella sua produzione non c'è alcuna evoluzione stilistica dal 1890 al 1930 (anche se studiando il catalogo emerge che dopo il 1903 Gloeden fotografò poco o nulla: per l'85/90% della sua produzione il deposito legale risulta infatti eseguito entro quella data, mentre i rimanenti 27 anni di vita e attività videro l'aggiunta di appena un 10-15% della produzione). 

Da questo punto di vista, e solo da questo, Plüschow, sia pure con tutti i suoi limiti morali in quanto pedofilo e ruffiano che non è il caso di discutere qui ed ora, si rivelò un artista più attento alla realtà sociale e alla sua evoluzione, anticipando coscientemente (sia pure con un anticipo eccessivo) la produzione industriale di nudo rivolta al mercato omosessuale. 
E su questo Vanzella concorda, anche se dal suo punto di vista il fenomeno è negativo: 

In un confronto tra i due autori tedeschi, è riscontrabile, da parte di Wilhelm von Plüschow, un'indagine fotografica attraverso la quale i giovani corpi giungono a noi in un'atmosfera meno artefatta, in una sorta di maggiore autenticità che li fa precipitare nella scarnificata realtà del loro mondo. 
È un occhio crudamente carnale quello che, sovrapponendosi ad un realismo esistenziale, ci trasporta in un luogo dove quegli angeli hanno i piedi sporchi, in un'attenzione interamente dentro la sua epoca dunque, mentre per tutte le generazioni, galleggia nel sogno, Gloeden. (Mirisola, p. 35).
Un catalogo cronologico della sue immagini è online qui.

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4) Pancrazio Buciunì, soprannominato 'u Moru (1879-1963) 
 

Quest'immagine di Wilhelm von Gloeden è apparsa ad un'asta su ebay, e secondo il venditore riportava scritta sul retro l'identificazione del ragazzo a sinistra (travestito da ragazza) come Pancrazio Buciunì. Ovviamente l'identificazione attende una conferma definitiva.
Lo stesso modello della foto precedente appare anche in quest'immagine di ragazzo travestito da ragazza (un trucco usato spesso da Gloeden) in preghiera. Anche questa immagine è apparsa sul sito d'aste "ebay", ma non riportava il nome del modello.
Un dettaglio ingrandito dell'immagine precedente. Secondo quanto mi è stato detto a Taormina, Buciunì non posò mai per foto di nudo di Gloeden. Oppure - aggiungo io - se Gloeden ne scattò, non volle renderle pubbliche.
Buciunì da vecchio, negli anni Sessanta, ritratto mentre sfoglia un album di foto di Gloeden. Quest'immagine e quella seguente sono apparse in: Charles Leslie, Wilhelm von Gloeden, photographer, Soho, New York 
 1977 e JFL, New York 1980.

Buciunì mostra l'apparecchio appartenuto a Gloeden. Produceva negativi di grandi dimensioni, permettendo la stampa d'immagini di qualità insuperata. In compenso pesava un bel po', e toccava a lui, in quanto servitore, scarrozzarlo su e giù per le colline taorminesi...
La foto di Buciunì sulla sua tomba, a Taormina.
Il retro di un'altra foto messa all'asta su ebay, con il timbro, e la sigla "BP", con cui Buciunì commercializzò anche nel dopoguerra le immagini di Gloeden. 

Pancrazio Buciunì (ma sui libri è spesso citato anche come Bucinì) era detto in paese "'u Moru" ("il moro", "il nordafricano") per il colore bruno della sua carnagione (e i suoi figli e nipoti e pronipoti, a Taormina, hanno ereditato il soprannome, anche al femminile: " 'a Moru"). 

Pancrazio fu per decenni l'uomo di fatica e l'assistente tuttofare di Gloeden.  
Zinaida Gippius, che ne parla nel 1899 dandogli il nome di "Luigi", dice di lui: 

Luigi è il braccio destro del barone. Si occupa della vita domestica e stampa le fotografie (ha d'altronde anche un assistente, Mino). 
L'aspetto esteriore di Luigi è straordinario. Quando guardi questo volto selvaggiamente stupendo con il naso corto, con le sopracciglia, che stranamente spiccano il volo - sembra di vedere un fauno vivo di tempi immemorabili. (Gippius).
Durante la prima guerra mondiale, dato che Gloeden tornò in Germania per evitare di trovarsi in un campo di concentramento per residenti nemici (come accade a Geleng, che pure era cittadino italiano e aveva due figli sotto le armi nell'esercito italiano) fu a Buciunì che rimase affidata la casa e la cura degli animali, per dare notizia dei quali continuò a corrispondere con Gloeden tramite la Svizzera.  
La censura militare, insospettita da tutte quelle lettere che parlavano del "corvo", del "tacchino" e del "cane", pensò che si trattasse di nomi in codice, e fece passare un brutto quarto d'ora al Moro per spionaggio e connivenza col nemico (un reato per cui era prevista la pena di morte). Fortunatamente le cose furono chiarite, ma non senza che il buon Pancrazio avesse assaggiato il carcere. (Cfr. Peyrefitte, pp. 159-160). 

Buciunì fu anche l'erede dell'azienda e delle lastre fotografiche (tutto quanto era rimasto del patrimonio del vecchio datore di lavoro: la casa era stata - per sua sfortuna - appena venduta). Si sposò ed ebbe figli. 

Lavorando per Gloeden Buciunì era diventato un esperto tecnico di laboratorio fotografico, e continuò quindi senza problemi a ristampare e commercializzare il patrimonio di negativi ereditato.  
Inoltre sappiamo che egli eseguì in proprio scatti fotografici, dato che nel processo per oscenità che subì durante il fascismo per le foto di nudo dell'ex padrone, egli dichiarò espressamente che dopo aver subito il primo dei due sequestri  

"egli dovette rassegnarsi a continuare il suo lavoro coi residui dell'assortimento Von Gloeden e con alcune più recenti - ma meno artistiche - negative di sua produzione". (Falzone Barbarò, p. 26).
Dunque, anche Buciunì rientra fra i fotografi italiani di nudo maschile dell'anteguerra, anche se la sua produzione autonoma non è mai stata studiata e riconosciuta, fino ad oggi. 
Io sospetto che gran parte delle immagini che vanno sotto il nome di Gloeden, e che rivelano un approccio più grossolano (il punto debole tende ad essere la posa, e l'espressione del volto), e che oltre a ciò spesso esiboscono pettinatura anni Venti o Trenta, siano opera di Buciunì. 
Se Gloeden dopo il 1903 smette di fotografare e si dedica a valorizzare la sua "banca d'immagini", presentandosi infaticabilmente a mostre ed esposizioni che spaziano da Parigi ad Algeri, è logico pensare che la gestione del laboratorio sia stata di fatto delegata a Buciunì.  
Il quale non avrà certo aspettato la morte del padrone per sperimentare in proprio la foto di nudo. 

Durante il fascismo, come appena detto, Buciunì subì due sequestri e un formale processo per "oscenità" (da cui uscì assolto), che tra confische espresse e rotture più o meno intenzionali (le negative erano su vetro, all'epoca) ridusse il corpus gloedeniano dai poco più di 3100 pezzi attestati nella numerazione del suo catalogo ai 1300 circa conservati oggi dalla Fondazione Alinari a Firenze. 

Buciunì continuò comunque a commercializzare fino alla morte ristampe dalle negative originali di Gloeden, specie dopo che Peyrefitte ebbe tratto il nome di Gloeden dall'oscurità in cui era caduto, grazie al romanzo breve Eccentrici amori. 
Che si spera possa averlo aiutato, dato che lo stesso romanzo nel 1949 lo aveva, forse a seguito delle vicissitudini della guerra appena conclusa, così descritto:  

Il suo erede, il fedele Moro, oggi semplice pescatore. (Peyrefitte, p. 181).
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5) Sophie Raabe (1847-1930) 
 
Sophie Raabe detta Sofia, figlia di primo letto della madre di Wilhelm von Gloeden.
La tomba di Sophie Raabe, alle spalle di quella di Gloeden, nel cimitero acattolico di Taormina.
Sorellastra di Wilhelm (era figlia della stessa madre, che rimasta vedova aveva sposato il futuro padre di Wilhelm) al momento del crollo economico del patrigno Sophie Raabe raggiunse Wilhelm a Taormina nel 1895 
La sorellastra Sofia sovraintendeva alla casa e preparava i pranzi per gli ospiti.  
Ancora oggi [1980, N.d.R.] alcuni dei taorminesi più anziani la ricordano, minuta di statura, sempre affaccendata, molto semplice nel vestire e nel tratto, molto più stile vecchia Fräulein che signora dell'aristocrazia.  
La aiutava nelle faccende più pesanti Pancrazio Buciunì, entrato proprio all'inizio del secolo al servizio di casa Gloeden, con le mansioni di cameriere tuttofare e di aiuto fotografo. (Falzone Barbarò, p. 23).
La sua silenziosa impotanza nella vita di Wilhelm è confermata da Giuseppe Vanzella:  
Fortunatamente anche la sorella Sofia Raab gli fu fondamentale aiuto, gestendogli con fedele dedizione la casa per lunghi anni ed accogliendo magnificamente gli ospiti, senza mai interporsi nelle sue scelte di vita. (Mirisola, p. 31).
Più vecchia di lui di qualche anno, premorì al fratello, l'11 novembre 1930. 
Anche lei è sepolta a Taormina, accanto al fratello. 

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6) Don Giuseppe Intelisano (18..?-prima del 1949) 
 

Giuseppe Intelisano, parroco di Castelmola, accanto a un Gloeden intabarrato da fedele di una processione cattolica. Si tratta probabilmente di una messa in scena, dato che Gloeden era protestante...
Uno scatto di Giovanni Crupi che ritrae una casupola (oggi non più esistente) in via san Pancrazio. Davanti ad essa, a fare "colore locale" il parroco di Castelmola e il suo amico von Gloeden.
Dettaglio dell'immagine precedente.
Un secondo scatto di Giovanni Crupi in via san Pancrazio che ingloba ancora, sempre per il "colore locale", don Intelisano e von Gloeden. 

Dettaglio dell'immagine precedente.
Maria Intelisano, nipote del parroco, posò per alcune immagini di Gloeden. Per la bellezza della ragazzina, queste immagini sono state spesso riproposte e antologizzate.
Una delle molte immagini scattate nel pergolato della "casa bianca" sul monte Ziretto.

Cosa ci facesse il parroco di Castelmola, uomo timorato di dio, assieme a un fotografo protestante e omosessuale non lo saprei proprio dire. Avranno forse avuto degli interessi comuni, che non ci sono stati tramandati. 

Quel che sappiamo è solo che don Intelisano fece parte della cerchia degli amici taorminesi di Gloeden. 

Peyrefitte (che nel 1949 lo dà per scomparso da molti anni) descrive folcloristicamente don Intelisano, facendone una specie di macchietta, sotto il semplice nome di "don Giuseppe": 

don Giuseppe e don Manuele (...) seppero essere, insieme, buoni preti e buoni compagnoni. Robusti contadinotti dalla fede solida quanto le montagne dove eran nati, ma non per questo meno maschi: (...) don Manuele aveva quattro o cinque figli e don Giuseppe ne vantava diciotto. (Peyrefitte, pp. 132-133). 

Questi buoni preti, già vicini fra di loro di parrocchia, lo erano inoltre per una piccola proprietà che ognuno di essi aveva sul monte Ziretto, alquanto indietro a Taormina. (...) Quella di don Giuseppe, spaziosa elegante e comoda, l'aveva fatta costruire per lui una ricca svizzera che tornava ogni anno. 
Questa casa, dipinta di rosso pompeiano e detta la casa rossa, era circondata da begli alberi e godeva di una posizione magnifica. (...)  
Lassù i miei curati avevan l'abitudine di cenare la sera, e questo soprattutto per aver l'occasione di incontrarsi con le rispettive amanti: esse facevan la cucina, aiutate dal mio fedele Moro e da due o tre ragazzi che conducevo con me, e se anche io li fotografavo in costume adamitico le presenza di quelle brave contadine non c'imbarazzava affatto. (Peyrefitte, pp. 133-134).

Accanto alla "casa rossa" sul monte Ziretto stava la "casa bianca", costruita da un cantante tedesco anch'egli omosessuale, che Peyrefitte chiama "Wullner".  
Qui Gloeden andava, a dar retta a Peyrefitte (e cfr. Falzone Barbarò, p. 24) assieme ai suoi modelli, e nel suo pergolato tenuto a vigna ha ambientato molte sue foto: 
<"Wullner"> acquistò da don Giuseppe una parte del suo terreno e vi fece innalzare una bella casa, chiamata poi la casa bianca, cui aggiunse un grazioso giardino in mezzo alle rocce. 
Le nostre riunioni in casa sua non avevano però la semplicità di quelle della casa rossa, con tutta la servitù che c'era e ancora c'è, e che cerca di sottrarre la futura eredità al cameriere favorito. 
I preti però in queste feste cui soltanto il cielo era testimone, non comparivano mai. 
Mi sembra ancora di rivivere quelle felici notti che riunivano ogni voluttà. (Peyrefitte, pp. 136).
Peyrefitte stesso afferma che la "casa rossa" fu distrutta durante il bombardamento che accompagnò lo sbarco inglese nella seconda guerra mondiale (Peyrefitte, p. 182), ma che la "casa bianca" sopravvisse intatta (e mi è stato detto a Taormina che esiste ancora). 

Per finire va aggiunto che fra le modelle usate da Gloeden appare la nipote del parroco, Maria Intelisano, dal viso molto bello, che Gloeden trovava somigliante a quello di Eleonora Duse, al punto da fotografarla anche in una posa "dusiana". 

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7) Karl von Stempel (1862-1951) 
 

L'unico ritratto di Stempel che io conosca, in tarda età.
La tomba di Stempel nel cimitero acattolico di Taormina. Gennaio 2006.
Sempre la tomba di Stempel nel cimitero acattolico di Taormina. Gennaio 2006.
La tomba nel settembre 2006.
Il barone Karl (o Carl) von Stempel (1862-1951) fu il principale informatore su cui Roger Peyrefitte si basò per ricostruire la Taormina gay d'inizio secolo raccontata nel 1949 nel suo romanzo Eccentrici amori (Nicolosi, p. 8).  
Dopo la morte di Stempel, Peyrefitte passò lunghi periodi invernali a Taormina, facendosi riservare deliberatamente la stanza della pensione Strazzeri (già casa di Stempel), in cui si trovavano gli oggetti personali del barone. 

Nato in Curlandia (oggi Lettonia) da famiglia tedesca nobile e ricchissima, il barone von Stempel si trasferì a Taormina assieme alla madre, e qui abitò 

in quella "casa Rossa" che ancora oggi è possibile ammirare proprio in fondo a una delle prime curve della carrozzabile Villagonia - Taormina. Un'altra casetta che sorgeva vicina - l'attuale "villa Caronia" - servì, invece, da magazzino-deposito. (Nicolosi, p. 8).
Sposato e con prole, Stempel ebbe una "crisi della mezza età" decisamente robusta, che lo portò a cercare di farsi "guarire" dalle sue pulsioni omosessuali da nientemeno che Richard von Krafft-Ebing (Peyrefitte racconta l'episodio con tono ironico, e gli mette in bocca la frase, che possiamo immaginare autentica vista la conoscenza diretta fra scrittore e personaggio: 
"Io mi meraviglio ancora d'aver potuto chiedere di guarire di questo male invece d'invocare che me lo dessero"). (Peyrefitte, p. 144).
La crisi lo portò infine a mollare, a 43 anni, moglie e carriera, per inseguire le sue tendenze omosessuali nella Taormina d'anteguerra: 
divorziato, visse arditamente secondo i suoi gusti e, poiché certi giornali curlandesi vi avevano fatto allusioni, egli scrisse loro per confermare che tutto era vero. 
Fu membro di quel "Comitato scientifico-umanitario" fondato a Berlino <da Magnus Hirschfeld, NdR>, che si proponeva di ottenere la revisione del Codice <tedesco, NdR> in materia di costumi. (Peyrefitte, pp. 144-145).
Stempel non aveva però trovato la felicità negli amori non disinteressati che era così facile comprare a Taormina in quegli anni, come confessò a Peyrefitte verso il 1947-1948:  Era stato sposato, aveva avuto due figli che aveva perso, e si era separato da sua moglie per vivere secondo i suoi gusti. Ne aveva avuto molte delusioni, e mi assicurava che al mondo non esiste altro che la gioia della famiglia.  
E poi aggiungeva: "Ciononostante, se ricominciassi da zero, farei la stessa cosa". (Testimonianza di Roger Peyrefitte in Nicolosi, p. 9).
Si legò insomma ai ragazzi del luogo, ma con legami tali che negli anni a venire se ne sarebbe parlato malvolentieri: 
la sua generosità non ebbe confini e oggi [1959, NdR], più che ogni altro, potrebbe testimoniare Francesco Strazzeri, il titolare di un'avviata pensione sulla rotabile Taormina-Castelmola, che gli fu molto vicino e che per molti anni curò la sua cucina. Non è abituato a parlare molto di Stempel, lo Strazzeri, e pertanto non si riesce a cavare molte parole dalla sua bocca. 
Tale atteggiamento lo si giustifica con il fatto che l'ex cuoco tiene molto alla memoria dell'aitante lettone, per cui teme di poter agire da profanatore se ne parla. 
L'ammirazione dello Strazzeri verso Stempel è tale che ancora oggi egli tiene in casa un suo bellissimo scrigno, una sua collezione di trofei da caccia. (Nicolosi, pp. 74-75).
[Nota di Dall'Orto: un erede dello Strazzeri, che qui ringrazio, mi ha scritto un'email per specificare che contrariamente a quanto stampato nel libro di Nicolosi il suo avo si chiamava Antonino, non Francesco, e che era il titolare della pensione, non l'ex cuoco]. 

La famiglia Strazzeri 

era stata al suo servizio per trent'anni ed aveva salvato, nel corso dell'ultima guerra, gli ultimi resti del suo patrimonio.(Nicolosi, p. 8).
Stempel era giunto a Taormina richiamatovi da Gloeden. 
Era uno dei pochi arrivati che non avesse nessuna pretesa di talento artistico o di particolare competenza estetica. Ciononostante divenne un avido collezionista dell'opera di Gloeden. 
Arrivò a 42 anni prima di riconoscere a se stesso la sua omosessualità e separarsi dalla moglie e dai figli adulti. Residente in Curlandia (provincia dell'impero russo con un'aristocrazia di etnia tedesca) lui e sua madre ne fuggirono molto prima della rivoluzione bolscevica, attivando a Taormina su suggerimento di Gloeden, con una fortuna in contanti e gioielli nelle loro valigie. 
Costruì una grande villa sul sito dove <sarebbe sorto> il casinò e una seconda casa con stalle per i servitori e gli animali. 
Abbellì la casa con oggetti d'arte scelti dalla madre e la sua biblioteca privata con quella che fu probabilmente una collezione completa delle stampe di von Gloeden.  
Essendo entrambi tedeschi, Stempel e Gloeden passavano assieme ore a discutere con entusiasmo e Gloeden aiutò Stempel ad imparare il dialetto siciliano del luogo.(Leslie).
A Taormina Stempel fu al centro della cerchia di personalità omosessuali che frequentavano la località:  
Stempel ebbe parecchie amicizie fra gli omosessuali; tra esse la più celebre fu quella con il principe Yusupof, l'assassino di Rasputin. Stempel l'ospitò per qualche tempo in casa sua, ma resosi conto del pericolo di tenere in casa un uomo a cui i servizi segreti zaristi l'avevano giurata, gli consigliò di partire dalla Sicilia. (Nicolosi, pp. 76 e 97-98, Saglimbeni p. 57).
Vissuto di rendita per tutta la vita, dopo la seconda guerra mondiale il barone vide il suo patrimonio assottigliarsi sempre più. Così 
andò ad abitare in casa Strazzeri, dove continuò a ricevere gli amici, ma dove, tuttavia, non ebbe il conforto di vedere attorno a sé un solo famigliare, nemmeno quel giovane taorminese che tanti anni avanti aveva adottato come figlio e col quale, però, era da tempo in rotta. (Nicolosi, pp. 77-78).
In realtà dietro al tracollo economico ci fu un risvolto che Nicolosi aveva ritenuto opportuno passare sotto silenzio:  
Stempel  incontrò un ragazzo che in breve divenne la sua ossessione. Nel corso degli anni e ben oltre la morte della vecchia baronessa madre il giovane uomo, il cui cognome era Castorina, spogliò metodicamente Stempel delle sue ricchezze. Nonostante gli ammonimenti dei suoi amici e i pressanti richiami di von Gloeden (che peraltro riconosceva che Castorina era pericolosamente attraente) la dipendenza di Stempel da lui non fece altro che crescere. 

Alla fine, quando Stempel aveva letteralmente perso ogni cosa ed era molto avanti negli anni, Castorina semplicemente lasciò la Sicilia senza nemmeno salutarlo. Si venne a sapere che era partito per l'Argentina, dove a quanto si sa mise su famiglia. A parte questi nudi fatti, non si seppe più nient'altro sul suo conto. 

Ormai impoverito e incapace di badare a se stesso (era oltre a tutto diventato cieco) Stempel fu salvato da un taorminese che aveva aiutato in passato. Il giovane uomo e sua moglie si presero in casa Stempel e la colonia straniere fece quel che potette per lui.  
Sopravvisse di vent'anni a Gloeden, sempre benvenuto nella rarefatta vita sociale di Taormina e ricordato come uno dei più importanti primi collezionisti di von Gloeden. Ma, ovviamente, la sua grande collezione di stampe di Gloeden andò perduta assieme a tutto il resto. Morì nel 1951 all'età di novant'anni. (Leslie).

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8) I ragazzi di Taormina e "chiddi d' 'a tila" 

È arrivato il momento di prendere infine il toro per le corna e parlare di loro, dei ragazzi di Taormina che Gloeden frequentava: ma Gloeden con 'sti ragazzi ci andava anche a letto, o li fotografava soltanto? 

Rispondiamo senza girarci intorno: sul fatto che ci andasse a letto nessuno ha mai espresso dubbi. Mai 
E proprio qui sta il guaio: se Gloeden ha subìto un lungo periodo di oblio a Taormina (che per ironia della sorte ha coinciso col periodo della sua riscoperta e valorizzazione in tutto il mondo), ciò fu dovuto ad una comprensibile rimozione dalla memoria da parte dei nipoti e bisnipoti e trisnipoti dei suoi modelli, che desideravano archiviare per sempre il ricordo del periodo in cui i loro nonni e bisnonni e trisavoli erano stati costretti, per bisogno economico, a scendere a compromessi con la rigidissima morale sessuale siciliana. 
Mario Bolognari ha pubblicato nel 2011 un eccellente saggio (Falsi miti di Belle Epoque. Ai tempi ''felici'' del fotografo Wilhelm von Gloeden, ''Illuminazioni'' n. 16, apr-giu 2011, pp. 13-63) che mostra, dati alla mano, le condizioni di povertà della presunta "arcadia" taorminese di Gloeden, dalla quale a inizio secolo un terzo della popolazione emigrò alla ricerca d'un futuro migliore. Magari proprio per non sottoporsi al "mercato di carne umana" grazie al quale invece alcuni giovani riuscirono a rimanere. 

Questo periodo di rimozione (umanamente comprensibile) ha reso possibile l'inconcepibile dispersione di tutto quanto era rimasto a Taormina di Gloeden (se si eccettua quanto ha potuto salvare in loco, fra l'indifferenza di tutti e con mezzi economici non certo all'altezza dei collezionisti forastieri, il collezionista Nino Malambrì). Perfino le lastre delle negative superstiti sono finite a Firenze, dopo essere rimaste per decenni sotto un letto a Taormina, senza che nessuna autorità locale mostrasse il minimo interesse ad acquisirle. Neppure quelle non di nudo: cancellate dalla memoria. 

Nel 1951 lo scrittore gay Jean Cocteau registrava acutamente questa fase nel suo diario: 

Taormina cerca di vivere su una cattiva reputazione, cosa più difficile che vivere su una buona reputazione. Ho raccontato a Somerset [Maugham] la storia di un pescatore quarantenne, furioso contro una boutique del centro perché esponeva fotografie di suo nonno completamente nudo con una corona di rose.  
La Taormina stile tahitiano non esiste più. Anzi disgusta la nuova generazione che guarda i turisti di traverso, credendo che tutti non pensino ad altro che fare loro delle avances. (Citato in: Cocteau, p. 441).
E in una lettera del settembre 1951 Cocteau ribadisce: 
Taormina cerca di sopravvivere sulla sua antica fama, ma non ci riesce. Le rimane il "panorama" e qualche cartolina di giovani inghirlandati di rose, che sono i nonni dell'attuale gioventù la quale peraltro se ne vergogna. (Cocteau, p. 239).
Il punto è che, banalmente, "si sapeva": Taormina è talmente piccola che quando occorre darsi un appuntamento ci si limita ad aspettare d'incrociare la persona cercata mentre passeggia avanti e indietro su Corso Umberto, dove alla sera letteralmente tutto il paese s'incontra. Incrociando un amico gli si chiede: "Vidisti a Peppinu X?" ottenendo informazioni sulla sua localizzazione ("verso Porta Catania", "verso...) degna di un sistema di posizionamento satellitare... o della rete di spionaggio della CIA. In questo contesto si può pensare che sfuggissero le manovre di certi turisti? 

Nel 1906 Francesco De Luca, nel descrivere la "corruzione" a suo dire portata a Taormina da turisti inglesi e tedeschi, riferisce che gli omosessuali avevano tra gli indigeni un soprannome: "quei della tela", ("chiddi d' 'a tila"), un nome che i miei amici taorminesi conoscevano ancora nel 2006. E che non ha a che vedere con la tela di stravaganti vestiti da loro indossati, come pensavo io, ma con la tela del ragno, come mi è stato spiegato. 

La cultura locale percepisce insomma i turisti omosessuali come ragni che tendono la tela e aspettano che vi incappino ingenui ragazzi locali per divorarseli. 
Una visione un poco autoassolutoria, visto che le testimonianze dell'epoca sono unanimi nel raccontare l'assalto di sciami di ragazzotti e anche (ahimè) ragazzini indigeni, pronti ad offrirsi come fattorini, guide e... tutto il resto, a chiunque all'inizio del Novecento scendesse dal treno alla stazione di Giardini ostentando un ricco bagaglio. Se gli omosessuali erano "ragni", allora sono stati i primi ragni della storia a cui le mosche saltavano addosso come se fossero miele... 

Saglimbeni, che come storico è decisamente raffazzonato ma che se non altro ha il merito di avere affrontato il problema senza ipocrisie, ha scritto al proposito: 

Una cosa è certa: Taormina ha costruito la sua fortuna turistica anche sulle stravaganze, le bizzarrie, le follie dei suoi ospiti, sugli eccentrici amori (per dirla con Peyrefitte) e i vizi privati (ma tutt'altro che segreti) dei suoi baroni. (Saglimbeni, pp. 32-33).
Anche dopo che ricche straniere iniziarono ad esibire i loro amanti indigeni, aggiunge Saglimbeni,  continuarono ad esibirli anche i baroni, naturalmente, i loro boy friends locali. Giovanotti, occorre precisarlo, assolutamente refrattari alla "diversità" delle nuove mode sessual-salottiere (sic), per indole, cultura, tradizioni (il gallismo siculo non sarà certo Brancati a inventarlo), ma non insensibili alla straordinaria e incredibile munificenza degli ospiti.  
Furono in parecchi i giovani taorminesi ad arricchirsi in quegli anni, assicurandosi assegni vitalizi, partecipazioni azionarie in banche e pozzi petroliferi, ed ereditando, alla morte dei vecchi e generosissimi amici, ville favolose. 
Nobildonne e baroni, insomma, finirono col gareggiare in peccati e stravaganze. (Saglimbeni, p. 54).
Saglimbeni conclude:  C'è un'aneddotica molto colorita sui personaggi di quegli anni. Gli ospiti, i famosi "baroni", arrivavano con un treno speciale, appositamente istituito agli inizi del secolo, il Londra-Parigi-Taormina, al quale, a Roma, veniva agganciata una vettura proveniente da Berlino.  
"Treno dei baroni" fu definito. I suoi vagoni-letto (...) raccoglievano "il fior fiore del pederastismo europeo". (Saglimbeni, pp. 56-57).
Quanto a Gloeden in persona, Falzone Barbarò ci tiene a specificare che 
visse sempre con molta discrezione la sua condizione di "diverso" e nonostante l'appellativo di viziusu, affibbiatogli da qualcuno, la sua presenza a Taormina non diede mai adito a scandali, né egli ebbe mai rimostranze da parte della autorità civili e religiose, con cui rimase sempre in buoni rapporti. (Falzone Barbarò, p. 23).
Ciononostante, non può fare a meno di ammettere la realtà, per lo meno il fatto che i pettegolezzi erano una realtà paesana con cui fare continuamente i conti: 
I suoi biografi parlano anche, in tono scandalistico, di vere e proprie orge che egli avrebbe organizzato in casa propria. (Falzone Barbarò, p. 23).
Concordo con Falzone Barbarò laddove osserva (p. 23) che si fatica ad immaginare che la rigida sorella gli permettesse di organizzarle orge in casa, tuttavia  come abbiamo visto Gloeden aveva a disposizione sul Monte Ziretto la "casa rossa " di don Intelisano e la "casa bianca", dove poteva andare in tutta tranquillità assieme ai suoi modelli a... ehm, ...scattare tutte le foto che voleva. 

Inoltre non basta osservare, come fa sempre lo stesso studioso: 

Che ci fossero da parte del barone tentativi di corruzione è stato argomento di piccanti dicerie - per anni ci furono sempre allusioni a lui e ai suoi modelli - ma nessuna protesta divenne mai una denuncia formale, né da parte dei parenti dei ragazzi, né da parte del clero locale, piuttosto rigido a quei tempi in materia di morale e di costume. (Falzone Barbarò, p. 25).
Come dicono gli inglesi, "l'assenza di prove non è prova di assenza".  
La verità non è infatti che Gloeden non diede mai scandalo, bensì che lo scandalo che diede (e ne diede, al punto da essere sfrattato dalla prima casa in cui aveva abitato), fu coperto dall'omertà, e dalla decisione dei suoi concittadini di non permettere a scandali di questo tipo di scoppiare, secondo una tradizione tutta italiana 
Il tentativo compiuto nel 1908 da Umberto Bianchi - che fosse giusto o sbagliato, qui la cosa ora non  interessa - di denunciare il "giro" omosessuale che circondava Gloeden, arrivando addirittura, drammatizzando, a parlare di "mercato di carne umana", fu accolto con fastidio e con attacchi a Bianchi, per avere sollevato temi su cui i siciliani desideravano che non si parlasse affatto. 

Che Gloeden le orge le abbia fatte o non fatte, a me sinceramente non frega nulla saperlo.  
Ciò non toglie che i contemporanei fossero meno stupidi e meno ingenui di quanto li dipingono gli storici di oggi. Avere scelto di non vedere non implica essere ciechi. Implica solo avere appunto deciso che certe cose si preferiva non notarle.  
Salvo poi spettegolare per decenni su Gloeden e i suoi modelli, o appiccicare l'aggettivo di viziusu, e chissà cos'altro, a chi "tesseva la tela" a Taormina. 

Da quando è iniziata la rivalutazione critica ed estetica dell'arte di Gloeden (e il valore commerciale dei suoi lavori ha iniziato a salire alle stelle...) si è moltiplicato il numero di critici d'arte, quasi tutti italiani (la bigotteria è ancora il marchio distintivo degli "intellettuali" italiani), che esprimono fastidio se non vera e propria isteria  per la possibile "lettura omosessuale" delle foto di Gloeden (come peraltro aveva già fatto lo stesso Falzone Barbarò, p. 31). 

Quale esempio fra tutti (ma ne potrei elencarne parecchi) cito Mirisola: 

Si è parlato molto - troppo, a mio parere - dell'omosessualità di von Gloeden, e dell'influenza che questa ha avuto sulla sua produzione artistica. 
Guardare alla persona, considerane vizi e virtù, inclinazione e comportamenti, scandagliarne la vita privata per trovare una giustificazione alle immagini, è un modo sbagliato e forviante (sic) di accostarsi all'arte. In arte, e in fotografia, valgono le opere, e solo queste hanno importanza, l'invenzione di forme e la materia plasmata e modellata dalla luce. 
Dire che l'estetica di Gloeden è un'estetica omosessuale, è negare gli stessi valori fondanti dell'arte (sic!). 
Essa non ha sesso, non esiste un'arte maschile o femminile, e dunque (sic) non esiste nemmeno un'arte omosessuale. Neanche in un piccolo centro lontano dai fermenti culturali, come la Taormina di fine Ottocento, si avevano questi preconcetti. 
Nella sua residenza, meta di innumerevoli visitatori di tutto il mondo, alcuni (sic!) dichiaratamente omosessuali, von Gloeden non diede mai scandalo [falso - NdR]. Era intimo amico del parroco di Castelmola, e i suoi ospiti erano spesso sistemati presso i frati del vicino convento di San Domenico [che però all'epoca non abitavano più lì: il convento era stato espropriato ed era - come è - un semplice hotel, NdR]. 
I taorminesi sorridevano della sua eccentricità e tolleravano le sue piccole manie, rispettosi della diversità e di quella che intuivano essere una grande individualità d'artista. (Mirisola, pp. 9-11).
Ebbene: tutto questo è semplicemente falso, e la benigna indifferenza morale dei taorminesi dell'epoca è semplicemente un mito creato in epoca recente 
Tutti sapevano infatti cosa volevano dai ragazzi del luogo i turisti omosessuali; soprattutto lo sapevano i ragazzi del luogo, che se lo vedevano chiedere in modo sfacciato, e che nel giro di qualche anno sarebbero diventati i padri del luogo.  
La società quindi sapeva; chiedeva solo che si agisse in modo discreto, richiesta che in genere venne soddisfatta, anche dal buon Gloeden. 
Tanto, i ragazzi in qualche modo si dovevano pur sfogare senza "compromettere" li fimmini, quindi tanto valeva che unissero utile e dilettevole "sfogandosi" coi generosi ricconi stranieri. Non era considerato morale, non era considerato ammissibile, non era visto di buon occhio... ma di fronte alla realtà della miseria (quella miseria che svuotò Taormina di un terzo della sua popolazione, emigrata in America proprio negli anni dell'Idillio arcadico di Gloeden) chi sapeva fingeva di non sapere nulla, e si faceva (relativamente: nei paesini sono tutti dei grandi impiccioni!) li cazzi sua. 

Uno studio antropologico sull'omosessualità a Taormina prima del 1930 ha scoperto che a quell'epoca 

l'omosessualità tra giovani maschi appartenenti alle classi subalterne era, nel paese, certamente diffusa.  
I rapporti avvenivano in ogni luogo dell'abitato e dei suoi dintorni e in circostanze diverse, e tuttavia, era la spiaggia dello Spisone, tra Mazzarò e Letojanni, riparata agli sguardi e frastagliata di rocce, deserta di barche ed equipaggi da pesca, luogo tradizionalmente proibito alle donne, dove i bambini e i ragazzi tra i cinque e i diciassette-diciotto anni si trovavano per fare il bagno, lo scenario privilegiato delle curiosità delle tensioni, dei rituali, delle esperienze omosessuali. 

Era abitudine di (sic) bagnarsi nudi. Il momento d'ozio, il calore solare, l'atmosfera di complicità, i giuochi collettivi, centrati sulla lotta su forme di agonismo scherzoso, favorivano uno stato di eccitazione che aveva come naturale orizzonte la cerchia degli amici o di quanti, comunque, erano presenti. 

Il partner poteva esser scelto o per relazioni di solidarietà e tenerezza, preesistenti o manifestatesi durante il tempo dello svago o, frequentemente, in base a rapporti di forza e di gerarchia all'interno di un gruppo già formato. (...)  
Relativamente poco praticati erano gli atti di penetrazione (...) molto diffusa la masturbazione reciproca. Affatto sconosciuta, nella cerchia dei coetanei e in ambito giovanile, ciò che eufemisticamente definiamo fellatio. (Faeta, p. 100).

Insomma, farle, certe cose, le si faceva. Semplicemente, era tabù parlare apertamente di cose tanto svirgugnate. 

E visto che tanto i ragazzi certe cose se le facevano comunque fra loro gratis, tanto valeva che fossero loro a far "sfogare" i ricchi e generosi furasteri piuttosto che le loro sorelle, dato che i ragazzi non ingravidano, e quindi non "disonorano" le loro famiglie, a differenza delle loro sorelle...  
Li fimmini, per fare le cose in modo "morale", dovevano puntare al matrimonio, ma il rischio di essere sedotte e abbandonate, cioè "disonorate", era enorme: sposare un miliardario non era certo un obiettivo più facile nel 1886 di quanto non lo sia nel 2006, specie se si è nata figlia di pescatori o di contadini analfabeti che parlano solo dialetto siciliano... come i modelli di Gloeden. 
Al contrario il ragazzo poteva dedicare qualche anno a barattare la sua irruenza sessuale con un capitale, utile per sposarsi e iniziare un'attività lavorativa, per poi, una volta diventato ufficialmente adulto, dimenticare tutto e lasciare il posto alla generazione successiva.  
L'accordo andava benissimo a tutti, ai ricchi omosessuali, ai ragazzi (in massima parte "eterosessuali-che-però-ci-stavano"), alle loro famiglie, ai loro concittadini, e resse fino a che la città non fu abbastanza lanciata, dal punto di vista turistico, da non avere più bisogno del turismo omosessuale. Che infatti, verso gli anni Trenta, inizia a cercare altre, più esotiche mete. 

L'atteggiamento verso Gloeden non faceva eccezione. Al proposito Faeta ha compiuto la suddetta ricerca antropologica sul campo, grazie 

a sopralluoghi avvenuti a Taormina nell'autunno del 1984.  
Ho intervistato numerosi anziani, all'epoca appartenenti ai ceti poveri, adolescenti (1910-1930) negli anni in cui  la vicenda di von Gloeden esprimeva una sua declinante maturità.  
Tutti i miei informatori conoscevano il fotografo, la particolarità del suo atelier e dei suoi modelli.  
Qualcuno lo ha frequentato, sia pur occasionalmente.  
Uno, in particolare, V. L.P., nato a Taormina nel 1910, è stato per due anni, nella sua prima adolescenza, amante di von Gloeden. (Faeta, p. 104).
Da questa indagine è emersa infine, e senza ulteriori reticenze, che come ci si poteva aspettare basandosi sulla sua arte 
la sessualità di von Gloeden, così come traspare, pur attraverso il velo di atteggiamenti autogiustificatori, dalle testimonianze raccolte, è estroversa, spregiudicata, estrosa, felice, plasmata sui comportamenti raffinatamente eterodossi che si affermavano in quei decenni negli ambienti colti europei.  
Era, inoltre, sostenuta da un innamoramento profondo ed estetico per la terra che nutriva i suoi modelli. Non siamo in grado di sapere quanto il fotografo amasse ciascuno di loro, ma certo li amava tutti insieme in quanto maschi di Sicilia: la sua vita e la sua opera sono, infatti, sotto il segno di un'emozione prepotente ed esclusiva, quella per l'isola e il villaggio di Taormina. 

Guidato da un istinto seduttorio netto, von Gloeden adopera argomenti che i giovani del luogo conoscevano, quello della soddisfazione di un bisogno tra complici, quello del potere e del fascino del più forte e del più anziano. Lascia loro, interamente, l'alibi della propria virilità, li seduce con la sua estraneità; offre piacere attraverso la sua consumata familiarità con il corpo maschile. 

Il paese adulto, tollerante e pettegolo, vitale e sanguigno, registra che la dimensione dell'omosessualità giovanile può essere ricondotta senza sforza all'interno dei circuiti del proprio piacere. Ciò inquieta, divide, genera tensione, invidia, incomprensione. 
Il giovane che si dona all'anziano in modo così esplicito ed evidente contravviene alle regole comunitarie: e, infatti, diviene ozioso, intrigante, curioso. Télari (coloro che, continuamente, ordiscono tela) vengono definiti quanti sono nella cerchia di von Gloeden, e gli omosessuali in genere. 

Il paese sa, tuttavia, che costoro rientreranno, con il passar del tempo, nella norma, che il fenomeno von Gloeden, non è che è una variante di qualcosa che è sempre esistito. Concede loro, quindi, tutte le attenuanti, li accredita di una virilità che farebbe felice il barone tedesco.  
Il mito dell'insaziabile disponibilità nordica - aristocratica - che si appaga dell'inesauribile eppur pacata potenza meridionale - popolare -  costante di certa cultura del Sud negli anni del suo intenso rapporto con il Nord (turismo, emigrazione) viene plasmato a Taormina in versione omosessuale.  
La dialettica tra lo straniero, sicuro oggetto di seduzione sessuale, perché già sedotto intellettualmente e sentimentalmente, e il dongiovannismo autoctono, irrequieto e febbrile, si dispiega qui, divenendo elemento di giustificazione e rassicurazione, in una dimensione maschile. (Faeta, p. 101).

Si sia d'accordo o no con questa analisi (io lo sono), resta comunque il fatto, dimostrabile sul terreno, che da questa esperienza di forte impatto con la realtà omosessuale al momento della propria nascita come località turistica, Taormina uscirà come città più tollerante delle altre verso le "diversità" dei forestieri (mentre per e fra gli indigeni continuava a restare in vigore una ben più rigida morale siciliana, e l'omosessualità non era affatto benvista), al punto che per anni questa fu la sola realtà siciliana ad avere locali gay, ben prima che li aprisse la ben più grande e moderna Catania. 
Ma questa è (già) un'altra storia. 

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9) I modelli 
 

Questo modello appare in molte foto del primo periodo, vestito ora da greco, ora da arabo (come qui, dove è chiamato "Ahmed"). Una delle sue foto si intitola "Peppino".
Un altro modello molto presente nelle foto di Gloeden, per una buona decina d'anni. Qui è chiamato "Pietro".
La stessa immagine, trasformata in quadro da Gloeden, ci rende alcuni colori della sua scalinata.
Lo stesso modello, negli abiti che indossava nella vita reale.  
Abiti non certo di lusso, e non certo da "Arcadia". Questo è il volto vero del mondo che Gloeden trasfigurò nelle sue immagini.
 
Questo modello appare in moltissime foto del primo periodo taorminese (circa 1895-1905).  
Visti i tratti delicati, e la sua presenza costante per molti anni, potrebbe forse essere lui il Vincernzo Lupicino ("Virgilio") di cui parla Nicolosi?
Ancora un modello molto presente nelle foto di Gloeden, e addirittura in una celebre serie scattata a Pompei da Plüschow. Fu lui ad essere portato al museo di Napoli, come racconta qui sotto Gloeden. Non so dare un nome neppure a lui.
 
 
 
"I miei soggetti erano contadini, pastori, pescatori.  
Ci volle molto tempo per entrare in confidenza con loro prima di poterli osservare in mezzo alla natura, avvolti in vesti leggere, per poi selezionarli ed ispirarli con racconti delle leggende di Omero, aiutato dalla mia conoscenza del dialetto siciliano. (...) 

I modelli erano quasi sempre allegri e contenti, avvolti nei loro abiti leggeri, si sentivano a loro agio all'aria aperta e camminavano suonando il flauto e chiacchierando allegramente. 

Non pochi di loro si divertivano a posare e non vedevano l'ora che mostrassi loro le fotografie scattate. 

Una volta per ricompensa portai uno dei miei modelli più bravi al museo di Napoli e rimasi deliziato dalla genuinità dei suoi commenti e dalla sua autentica gioia nell'ammirare le sculture di epoca classica".

Così Gloeden stesso descrive il suo rapporto con i suoi modelli nel resoconto presentato nel 1899 alla "Libera società fotografica di Berlino". 

Chi erano costoro? Qualche nome ci è stato salvato dal gran naufragio della memoria, nel 1959, da Nicolosi: 

Pur essendo trascorsi tanti anni, ancora oggi sono in vita molti di quei personaggi che servirono da modelli. 
Tra i nomi di questi ultimi fa spicco Vincenzo Lupicino (un barbiere napoletano al quale fu dato il soprannome d'arte di "Virgilio" e che il Gloeden fece espressamente giungere dalla sua città natale perché attirato dalle sue forme, delicate e gentili come quelle di una giovinetta). 
E poi: Peppino Caifasso, Pietro Caspano, Nicola Scilio, Giuseppe De Cristofaro... (Nicolosi, pp. 52-53).
Nel romanzo di Peyrefitte c'è un altro "Virgilio", taorminese, figlio di un asinaio e poi fotografo, morto durante la prima guerra mondiale, che come molti altri persoangi dello scritto di Peyrefitte è più un personaggio simbolico che una persona reale.  
Secondo Peyrefitte uno degli ulivi del Viale della rimembranza della Villa Comunale (i giardini pubblici) porta il suo nome (Peyrefitte, pp. 178-179), che ovviamente non è "Virgilio" (ho controllato di persona: l'unico Virgilio caduto nella prima guerra mondiale commemorato nel viale fu il ten. Virgilio Rizzo, un ufficiale, il che all'epoca implicava che fosse di famiglia almeno borghese). 

Peyrefitte lo presenta, sedici o diciassettenne, come primo amante del barone von Gloeden all'arrivo a Taormina e sua prima guida. (Peyrefitte, pp. 102-116 e 178). 

Virgilio, che aveva concepito per me una specie di passione, vedeva con dispetto il successo che ottenevo coi suoi amici e il suo carattere giunse a incupirsi tanto da far temere una malattia. 
Un giorno, trovandosi solo con sua madre, le confessò, dopo una crisi di pianto, di soffrire per causa mia e la povera donna ebbe all'improvviso una strana idea; attribuendo, e giustamente, a gelosia amorosa il dolore del figlio, gli domandò se per caso io non fossi una donna travestita. Di colpo Virgilio smise di piangere e cominciò a ridere, ma sua madre, cui probabilmente per la prima volta veniva in testa un'dea così ardita, non si arrese: dichiarò che potevamo essere tutti d'accordo e che avrebbe creduto soltanto ai suoi occhi. (Peyrefitte, pp. 111-112)
Il racconto prosegue con la madre che con una scusa va sulla spiaggia, dove il barone e il figlio facevano il bagno nudi, per verificare il sesso dell'innamorato del figlio: scoprendo che è un uomo, se ne va sollevata. Una scena più comico-folcloristica che storica. 

Non è stata per ora fatta una ricerca storica sui modelli di Gloeden (Faeta è infatti più interessatio ai risvolti psicoanalitici ed antropologici che a quelli storici). Ascoltare anche il loro punto di vista, a mio parere, sarebbe stato interessante. 
Negli anni Sessanta una rivista "omofila" svizzera andò a cercarli, ma si limitò a fotografarli da vecchi, ormai nonni. Non ho mai trovato quel documento, quindi non so se contenesse o no testo. So che, calcolando che nell'ultima parte della sua vita Gloeden fotografò poco o nulla, i suoi modelli dovrebbero essere ormai morti tutti, o avere minimo cent'anni. La possibilità di chiedere il loro punto di vista, quindi, ormai non esiste più. 

Con un poco di pazienza si potrebbe interrogare i loro discendenti, anche perché nel mio ultimo viaggio a Taormina ho trovato un atteggiamento più aperto che un passato rispetto al tema (quando la gente addirittura si stupiva del fatto che Gloeden fosse noto al di fuori di Taormina). Ormai i "fattacci" sono talmente vecchi (per i più giovani è roba da quadrisavoli), e il turismo a Taormina si è talmente emancipato da quelle prime mosse, che parlare della cosa suscita meno paranoia che vent'anni fa (quando feci i primi, infruttuosi tentativi in tal senso). 

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10) Gaetano D'Agata (1883-1949) 
 

Non ho trovato nessun ritratto del viso di D'Agata. Ringrazio chi potesse aiutarmi a trovarne uno.
Il timbro delle foto di Gaetano D'Agata.
Gaetano D'Agata, Nudo maschile. Prima del 1929.
Gaetano D'Agata, Nudo maschile che imita la posa del celebre Caino di Gloeden. 1923.
 
Qui parliamo della concorrenza a Gloeden. Che a quanto pare ebbe anche imitatori. Quelli di cui Peyrefitte ha scritto (e non senza buone ragioni), facendo parlare in prima persona Gloeden: 
Non basta, per ottenere un nudo artistico, mettere un po' di fiori attorno al capo o fra le braccia del modello, come ognuno può constatare dai tentativi dei colleghi che non tardarono a pullulare sul luogo. Ma gl'imitatori mi han sempre divertito, coi loro efebi che parevano esser pagati da un nemico di Taormina, o dagli efebi stessi. (Peyrefitte, p. 119).
Falzone Barbarò segnala (p. 25) fra gli assistenti di Gloeden nel momento del suo massimo successo, oltre a Pancrazio Buciunì e al parente di Crupi già citato più sopra, anche un Gaetano D'Agata (1883-1949). 

Si tratta di un taorminese, che in un momento imprecisato (ma le sue foto di nudo datate che sono venute alla luce fino ad oggi si concentrano negli anni Venti) si sarebbe "messo in proprio" cercando di far concorrenza a Gloeden. 

Gaetano D'Agata cercò, con personale impegno, di mantenere vivace un progetto di lavoro basato sulla fotografia, non solo quale strumento di documentazione, ma anche d'improvvisazione artistica.  
Originario della provincia catanese (proveniva da Aci S. Antonio), giunse giovanissimo a Taormina, trovando nella località costiera stimoli ed interessi tali da stabilirvi la propria residenza.  
Sposò una ragazza del posto e, alla morte di questa, una donna austriaca, avendo un figlio da entrambe.  
Viaggiò molto in Spagna, Irlanda, India e Stati Uniti d'America, arrivando ad aprire un atelier in New York, studio che però rimase attivo per un solo anno.  
Partecipò ad alcune esposizioni di livello nazionale, come quella di Torino del 1923 e di Roma l'anno successivo, riportando lusinghiere segnalazioni.  
Il suo lavoro consistette, per la gran parte, nella ripresa di tradizionali vedute di paesaggio, appena permeate del fascino di un pittorialismo di maniera, adatte ad un pubblico di medi interessi artistici. (Mirisola, p. 37).
D'Agata registrò in effetti una più che dignitosa produzione come paesaggista "da cartolina", e molte sue foto "di genere" furono usate per cartoline che rimasero in circolazione per decenni. In questo campo D'Agata si rivelò un buon fotografo commerciale. 

Accanto a quella di paesaggi ci fu però una produzione di nudo maschile (il cui catalogo è attestato con numeri che vanno oltre il 200) che non merita certo di passare alla storia dell'arte. Innanzi tutto, a colpo d'occhio si capisce immediatamente che D'Agata era eterosessuale. Nei suoi nudi maschili si vede chiaramente che egli non riusciva a percepire gli elementi che possano rendere erotico un corpo maschile. Di conseguenza sbaglia spesso la messa in posa dei suoi modelli, mentre Gloeden, fino alla fine, non ha mai sbagliato una posa. 

Prendiamo per esempio l'imitazione che D'Agata fa del celebre Caino di Gloeden (del 1905 circa), una foto che è stata ristampata innumerevoli volte ed imitata altrettante, e che dal processo a Buciunì sappiamo essere stata perfino esposta come decorazione artistica negli alberghi taorminesi.  
D'Agata, palesemente, vuole provare a ripetere il "colpaccio", variando ovviamente un poco la posa perché non si dicesse che aveva copiato.  
E allora, cosa fa? Al posto di un giovanotto muscoloso mette un ragazzotto che l'adolescenza ha appena prosciugato di volume dandogli membra lunghe e sottili, carino di viso ma giraffesco nelle proporzioni. Inoltre ne mette in primo piano i piedi, in modo tale da farli sembrare sproporzionati, enormi. 
Alla fine, il ragazzo è caruccio, pov'rino, la foto è antica di quasi cent'anni quindi alle aste online il suo prezzuccio lo spunta comunque, ma l'immagine in sé resta comunque solo "una copia del Caino di Gloeden" e basta. Un "vorrei-ma-non-posso". 

Il bello è che anche la foto di Gloeden imitata era a sua volta una imitazione del Giovane uomo seduto sulla riva del mare di Flandrin, oggi al Louvre (una icona gay). Ma Gloeden ha abbastanza cultura artistica e dell'immagine per rifarlo come cosa sua, come avrebbero fatto anche Fred Holland Day, Robert Mapplethorpe o Tony Patrioli. D'Agata invece conosce solo Gloeden; quindi non imita direttamente Flandrin, ne imita l'imitazione... col risultato inevitabile dell'impoverimento del risultato. 

Inoltre, come un cuoco che per coprire le sue malefatte esagera coi condimenti, nelle sue foto D'Agata esagera col principio secondo cui "giovinezza è bellezza", rifilandoci nelle sue foto ragazzini spesso a malapena puberi, gracili, ossuti, adatti al massimo a fare il puttino con le ali in processione... 

Insomma, le sue, più che foto di nudo, sono foto di ragazzini senza le mutande, nelle quali sia la sensibilità omoerotica sia la poesia presenti in Gloeden sono assenti. 

Date queste premesse, e dato che anche lo stesso erede di Gloeden ebbe problemi con la stretta censoria innescata dal regime fascista a partire dal 1930, e dato infine che il pittorialismo fotografico di Gloeden che D'Agata imitava era passata di moda a partire dal periodo della Grande Guerra, è improbabile che la produzione di nudo maschile di D'Agata sia sopravvissuta oltre il terzo decennio del XX secolo. 

Ciò non toglie che di tanto in tanto emerga sul mercato qualche scatto ben impostato (a volte nei luoghi di Gloeden, ad esempio la sua casa, il che lascia sospettare un aiuto del maestro nella concezione dell'immagine). 

D'Agata è insomma un altro fotografo di nudo maschile che attende di essere studiato e catalogato, ma che non può aspirare alla fama artistica di Gloeden. Ne è un epigono, brilla di luce riflessa, e la sua stagione si chiude al chiudersi di quella dello stesso Gloeden.  

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11) ...Nedda & c. 
 

Nedda cucciola. Incisione da una foto di Gloeden, edita su rivista nel 1893.
 Nedda cresciuta, in una foto successiva.
Ancora Nedda mentre fa le feste a un modello.
 
Zinaida Gippius, nel 1899, nomina nel suo racconto di una serata passata a casa Gloeden  
Nedda, il cane nero, che capisce perfettamente l'italiano ed è molto abituato a posare per le fotografie. (Gippius).
(In realtà, essendo "Nedda" un nome siciliano femminile, vale a dire "Nella", sarà stata semmai una cagna). 

E Falzone Barbarò ha raccolto dalla voce dei testimoni che Gloeden 

aveva molti altri animali domestici, tra cui un grosso cane nero a cui aveva insegnato a zampettare sul suo pianoforte. (Falzone Barbarò, p. 23).
Gloeden aveva infatti una vera passione per gli animali, divertendosi ad ammaestrali e lasciarli girare liberi per la casa. In molte foto della scalinata di casa Gloeden si intravede sul retro perfino una voliera per gli uccelli. 

Così scrive Nina Matteucci, nel 1910: 

È notorio ed anche sorprendente, come egli arrivi ad ammaestrare i volatili, dal tacchino al colombo, dal corvo all'usignuolo. 
Egli riesce ad insegnare, col fischio, una canzone ad un uccello, che la ripete subito dopo modulandola nella piccola gola, in tutte le note alte e acute, basse e morenti. Ad un suo cenno l'uccello  gli salta sul dito, contento di venir portato a spasso, lo bacia, gli va sulla spalla, e dopo un certo tempo ad un secondo cenno rientra nella gabbia, e canta come di sfida alla libertà!  
Uno stuolo di colombe vola riunito, dal tetto della casa, e gira e rigira nell'aere libero nel medesimo verso, fino a che egli non dica “basta” battendo due o tre volte le mani, al che come dal desìo chiamate con l'ali aperte e ferme ritornano sul tetto; nel medesimo attimo. (Matteucci, p. 404).
In questo zoo, Nedda fu il suo animale preferito. 

Appare cucciola in una foto sicuramente anteriore al 1893 e quindi la sua presenza può essere d'aiuto a datare al decennio successivo le foto in cui appare (Gloeden datava le foto in base all'anno in cui le stampava via via, e non in base a quello in cui le aveva effettivamente scattate, perciò datarle con esattezza è problematico). 

Oltre a Nedda, in altre foto di Gloeden appare un cagnolino di piccola taglia, bianco e con una macchia nera su un occhio. 
  

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I luoghi di Gloeden. Napoli, "Terra del fuoco". 
 
Il timbro usato da Gloeden a Napoli.
Il soggiorno di Gloeden a Napoli è testimoniato sia dalle foto scattate in quella località, sia dal timbro con cui le vendeva, che la menziona espressamente. 

Nelle foto scattate a Napoli sono presenti almeno due locations (oltre a quelle nei dintorni, come Pompei e Capri). 

La prima è la casa di Plueschow, che è indicata nei suoi timbri all'indirizzo "Seconda rampa di Posillipo 55" (oggi "Rampe di Sant'Antonio").  
 

La terrazza di Plueschow a Posillipo. Particolare interessante: ho assemblato questo mosaico a partire da un'immagine di Gloeden (in color seppia) e da due di Pluschow (in grigio). 
La terrazza è in primo piano, sulla destra si apre lo spazio della scaletta che scende in giardino. A sinistra, l'imponente muro di contenimento.
 
La casa ha un terrazzo che corre lungo un massiccio muro di contenimento coronato da pini, e sbocca in un giardino, da cui è separata da una corta gradinata.  
 
Il giardino della casa di Posillipo, ricostruito con un mosaico di immagini del solo Plueschow. 
La muraglia di contenimento è alla spalle di chi guarda la foto.
 
Alle spalle dei modelli, nelle foto, s'intravede, ad un'altezza non eccessiva (un quarto piano) l'attuale imbocco di Corso Gramsci, nonché (dal fondo del giardino) il campanile della chiesa di Piedigrotta e il cornicione della caserma adiacente.  
È possibile che questo edificio con giardino esista ancora, almeno a giudicare dalle vedute aeree di "Google maps". 

La seconda location è una casa che sembra essere stata a disposizione, questa volta di Gloeden, per più anni, almeno a giudicare dal fatto che nelle foto l'intonaco di alcuni punti (come la vera della cisterna) si sgretola progressivamente, e soprattutto dal fatto che alcuni "affreschi" (in realtà "a secco") con decorazioni grecizzanti dipinti da Gloeden attorno e al di sopra della porta, fanno in tempo a sbiadire e a cadere in più punti.  
Ho ricostruito, sempre con la tecnica del mosaico, uno dei due lati corti di questa terrazza, molto caratteristico: 

 

I miei corrispondenti Jacques Desse e Malcom Gain hanno condotto una ricerca sulla localizzazione di questa seconda casa, concludendo che probabilmente sorgeva nella zona oggi fittamente segnata da case di recente costruzione, ed è quasi certo che non esista più.
Desse ha comunque trovato due foto inedite che gli hanno permesso di avere una panoramica completa a 360 gradi sulla terrazza, scoprendo che il fotomosaico qui sopra publicato ritrae la stessa terrazza da cui fu scattata la celebre fotografia "Terra del fuoco", dal lato corto opposto, nonostante il coronamento in cemento del parapetto presente solo su un lato facesse pensare a due terrazze diverse.

Alla fine la soluzione è arrivata mentre consultavo la collezione di foto gloedeniane della Civica raccolta di stampe Bertarelli di Milano, che conserva una foto di WIlhelm von Pluschow (la numero 6172 del suo catalogo) che mostra la terrazza per intero, e che sul retro la identifica a matita come "Villa Barbaja, Posillipo":

Villa Barbaja a Posillipo, fotografata da Wilhelm von Pluschow

Concludo limitandomi a nominare la presenza nelle foto di Gloeden di una terza location, una terrazza con un lucernario dalle eleganti finestri ovali. Vi appaiono modelli taorminesi in età ormai adulta (il che data le foto attorno al 1895/98), e molti nudi femminili. La localizzazione di questo edificio non è però certa e quindi per ora lo trascurerò. 

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l luoghi di Gloeden. Taormina, ieri e oggi. 

 

Giovanni Crupi, Gloeden e il parroco di Castelmola davanti a San Pancrazio, ca. 1900.
 La stessa immagine, colorizzata per essere venduta come cartolina turistica.
 La stessa strada, come si presentava nel 2006.
Giovani Marziani, Palazzo Corvaja, [circa 1900].
Palazzo Corvaja nel 2006 (mannaggia a tutti 'sti alberi cresciuti davanti nel frattempo!).
Palazzo Corvaja nel 2006.

Il teatro grecoromano in una foto di Gloeden.
 Il teatro grecoromano nel 2006.


Il teatro grecoromano in una foto di Gloeden.
Il teatro grecoromano nel 2006.


Giovanni Crupi, Panorama dal Teatro Greco, ca. 1900.
Panorama dal Teatro Greco nel 2006.


Anonimo, La chiesa di santa Caterina di Alessandria nel 1900 ca.
La chiesa di santa Caterina di Alessandria nel 2006


Giovanni Crupi, Porta Messina all'inizio del secolo XX.
Porta Messina nel gennaio 2006.


Giuseppe Bruno, Porta dei Cappuccini, 1890.
Porta dei Cappuccini, gennaio 2006.


Giovanni Crupi, Panorama, con vista di Castelmola. 1890/1900 circa.
Panorama, con vista di Castelmola. 2006.

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La casa di Gloeden (Piazza san Domenico 10). Ieri e oggi. 

Nei primi tempi del suo soggiorno Gloeden a Taormina alloggiò presso il convento di san Francesco, dato che a Taormina non esisteva ancora un'industria turistica (fu la sua generazione a crearla).  
Poi stette per alcuni anni in una villa affittata sulla via del Teatro Greco. (Falzone Barbarò, p. 22). 

Nel frattempo si concedeva frequenti viaggi a Napoli, dove come appena detto risiedeva il cugino Wilhelm von Plüschow, Roma e Capri, 

dove conobbe alcuni tra i maggiori esponenti della vita culturale e artistica di quegli anni, da Matilde Serao a D'Annunzio a Francesco Paolo Michetti, contatti che gli servirono per assimilare ulteriormente le forme dell'arte classica, fino a modificare la sua vita artistica secondo lo spirito e gli ideali dell'arte antica e raggiungere così una purificazione e un potenziamento del suo senso artistico. 

Spinto da questo ideale incominciò a creare  e a fotografare i suoi famosi "ignudi" e le sue "scene arcadiche", come lui steso le definiva, all'inizio per puro divertissement e senza alcuno scopo commerciale. (Falzone Barbarò, p. 22).

Infine, quando fu sfrattato dalla casa appena citata 
per le rimostranze del proprietario che non tollerava le chiassate notturne di quegli strani tipi (Saglimbeni, p. 33),
acquistò appena in tempo, prima del tracollo finanziario del padre, una casa con giardino in piazza san Domenico, dove sarebbe vissuto (con la sorella Sophie Raabe) fino alla morte. 

Qui 

Wilhelm von Gloeden visse di fotografie. Non ritornò ad essere ricco, ma condusse un'esistenza decorosa, avendo anche la possibilità di ricompensare quanti lo avevano aiutato nei momenti difficili. 
Un solo servitore (Pancrazio Buciunì, (...) soprannominato Il Moro) gli faceva da mangiare, i mestieri di casa, e lo seguiva come un'ombra per la campagna di Taormina, reggendo in spalla la monumentale macchina fotografica e la ancor più pesante borsa delle lastre. (Saglimbeni, p. 36).
Immortalato da Gloeden in decine e decine d'immagini, specie nel lussureggiante giardino, questo edificio, familiare a tutti coloro che conoscono le foto di Gloeden... non esiste più [4]. 
Fu infatti distrutto durante la seconda guerra mondiale (assieme alla vicina chiesa di san Domenico e a un'ala dell'albergo San Domenico), nel luglio 1943, dai bombardamenti inglesi, che miravano al quartier generale tedesco, comodamente installato nell'hotel di fronte alla casa di Gloeden. 

Ironia della sorte: la casa accanto, di cui ci rimane una nitida foto di Gloeden, non solo esiste ancora praticamente immutata dopo oltre un secolo (a parte un sopralzo discreto), ma ospitava fino a pochi anni fa una discoteca gay (oggi chiusa), il "Perroquet"! 

A sua volta Gloeden pochi mesi prima di morire aveva ceduto al taorminese Salvatore Bambara l'immobile, in cambio di un vitalizio di 2000 lire annue,  per far fronte alla gran scarsità di denaro che lo afflisse in vecchiaia: la sua arte (come del resto tutta la corrente artistica a cui apparteneva, il pittorialismo fotografico) era passata di moda, come lo era l'ideale estetico (ed erotico) del ragazzo androgino e languido in cui s'era specializzato. 

Sul terreno che un tempo ospitava la casa e buona parte del giardino di Gloeden sorge oggi un commissariato di Polizia, un edificio a più piani anni sessanta, bruttarello anzichenò, che è  proprio il caso di definire "un casermone". 

---***---

* L'interno della casa 
Com'era questa casa? 
Peyrefitte, che non la vide di persona, la fa descrivere così al suo Gloeden: 
Sulla piazza che lo fronteggiava [il san Domenico, NdR] trovai una graziosa casetta che acquistai (...): di forma bizzarra e a un sol piano, sotto un tetto irregolarmente scosceso, essa è abbastanza lunga per costituire pressappoco da solo il fondo del quadrilatero racchiuso dal giardino. (Peyrefitte, p. 115). 
Anche Falzone Barbarò specifica che  
Si trattava di un edificio medievale di stile mediterraneo a un solo piano, a cui apportò alcune modifiche per renderlo più comodo e confortevole per sé e la sorella. (Falzone Barbarò, p. 22).
In realtà la prima delle foto che pubblico qui sotto mostra che per esprimersi più esattamente la casa di Gloeden era collocata su due piani, un piano terreno e un primo piano, al quale ultimo si accedeva per una scala esterna in muratura. Oltre alla scalinata era presente una balconata di un qualche tipo. 

Zinaida Gippius la casa la vide, e la descrisse così nel 1899: 

Il barone G., che da tanto si preparava a dare una serata nella sua piccola villa accogliente e a mostrarci la vera tarantella, venne a invitarci. 
- "Avrete molti siciliani?". 
- "Che dite! Sarà la nostra piccola cerchia. Tra i miei conoscenti non inviterò nemmeno tutti gli stranieri. Ho anche poco posto. Il mio Luigi (Pancrazio Buciunì, NdR) stampa addirittura le fotografie in cucina". 
Amavamo la villa poco spaziosa e accogliente del barone G. 
Una casetta bassa, appena visibile dalla siepe del giardino lussureggiante, pieno di strane rose, lo stretto balcone, la parete bianca sopra il balcone, coperta da grossi fiori violacei, e i glicini pallidamente lilla, dolcemente piegati. (Gippius).
E Nina Matteucci, nel 1910: 
Il suo salotto, originalissimo, è un museo d'arte, ed è là che egli passa il suo tempo, quando, non lavora, o quando il suo grande amore agli uccelli non lo attira nelle diverse uccelliere situate qua e là nel giardino. (Matteucci, p. 404).
Falzone Barbarò possiede informazioni più dettagliate, raccolte in loco da testimoni oculari all'epoca (1980) ancora vivi: 
La casa era in realtà molto piccola.  
Saliti alcuni scalini si accedeva a un grande salone, dai muri semplicemente intonacati di bianco, senza nessuna pretesa di arredamento, senza nessuno dei mobili di famiglia, se non il pianoforte tedesco con cui Gloeden amava intrattenere gli ospiti.  
Quel che balzava all'occhio era piuttosto una ricerca di comodità: basti pensare ai grandi divani e poltrone, ricoperti di tappeti turchi e di pelli di animali esotici, che spesso, trasportati all'esterno, gli servivano per completare molte delle sue ricostruzioni fotografiche 

Dal salone si entrava direttamente in una spaziosa sala da pranzo, su cui si affacciavano le camere da letto di Wilhelm e della sorella. Unico lusso per quei tempi: una vera stanza da bagno. 

Secondo il modulo architettonico locale, la cucina e la dispensa erano separate dal corpo principale mediante un piccolo cortiletto di servizio su cui si apriva un ingresso secondario. 

Nel rimaneggiare la costruzione, dalla dispensa venne ricavato il laboratorio fotografico, mentre una specie di mansarda nel sottotetto, asciutta e ventilata, venne utilizzata come magazzino per le lastre impressionate. (Falzone Barbarò, p. 22-23).

Sono riuscito a ricostruire, montando a mosaico una dozzina di fotografie, il cortiletto di servizio di cui parla Falzone Barbarò: ecco in che modo appariva 
 
Il cortiletto della casa di Gloeden ricostruito a partire da un mosaico di sue immagini. Fare clic sull'immagine per un ingrandimento (per tornare a questa pagina usare poi il tasto "indietro" del browser). 
Il mosaico serve solo per dare un'idea generale: non tiene conto infatti della prospettiva dei due muri laterali, che qui non appaiono a 90 gradi come avrebbero dovuto, e lo zoccolo è stato in parte ricostruito da me usando un pezzo della foto centrale. 
A sinistra, ad angolo con un muro che separa da un secondo cortiletto, appare la porta della dispensa/cantina, come rivela la griglia d'aerazione in metallo.  
Segue una semicolonna, usata per appoggiare le travi di sostegno per un eventuale pergolato. Al centro, la finestra della cucina/laboratorio, sotto cui c'è uno sgabello che appare in parecchie foto scattate in questo cortile.  
Segue una giara decorata, anch'essa molto presente nelle foto di Gloeden.  
Poi la porta della cucina-laboratorio, come rivela la fotografia numero 3088, nella quale la porta è aperta e s'intravede l'interno, con una piattiera da esposizione: 

Completa il cortiletto una seconda semicolonna, e sulla destra una parete nella quale si apre la porta di una stanza che proseguiva fino ad incontrare il sentiero d'ingresso che correva parallelo alla casa, chudendo il cortiletto da quel lato. Per qualche motivo (sarà stata la camera oscura?), Gloeden "tappa" spesso questa porta con un lenzuolo bianco (cosa che invece non fa con le altre porte), come avviene anche nella foto che ho usato nel mosaico. 

Sulla destra, tre scalini permettono di superare il dislivello causato dallo zoccolo su cui sorge la casa. 
Un sentierino brevissimo, lastricato in schegge di pietra non squadrate, porta al giardino, come appare evidente in questa foto, scattata tenendo la schiena verso il giardino e la faccia verso la casa: 
 

Foto numero 41 di Wilhelm von Gloeden. Attraverso la porta aperta s'intravede la semicolonna di destra e la parete (bianca: dietro e sopra il vaso) della stanza che chiude sul lato destro il cortiletto. 
Fare clic per ingrandire.
Sullo sfondo, dalla porta aperta nel muro che divide il sentiero che corre parallelo alla casa dal cortiletto, si vede la semicolonna di destra e la scalinata di tre gradini. 

Quanto all'interno vero e proprio, Matteucci pubblica nel suo articolo una  foto di Gloeden al lavoro nel suo studio (la sola che al momento può considerarsi una rappresentazione certa dell'interno di questa casa), mentre ritrae un modello. Più che un museo sembra un magazzino di bric-à-brac il cui proprietario non riesce a decidersi fra gusto art nouveau e accademismo ottocentesco... ma tutti i gusti son gusti. 

Ecco le pochissime foto degli interni che ho rintracciato fin qui: 
 

La casa di Gloeden in una foto pubblicata nel 1910 nell'articolo di Matteucci, a p. 403. Gloeden vi posa mentre fa il ritratto a un modello in abiti orientali. (Archivio G. B. Brambilla).
Già che ci siamo, ecco un'altra foto dell'interno della casa di Gloeden. La si riconosce come tale per la presenza della giara dipinta da lui, che appare in altre sue foto ambientate nel giardino. Anche le palmette decorative saranno, al solito, opera sua. Resta però da verificare che non si tratti di un ambiente della casa di Napoli.
Questa foto era apparsa su ebay come ritratto dello studio di Gloeden. Magari lo è, ma il gusto strettamente art nouveau della mobilia rende improbabile l'attribuzione. A giudicare dalle sue foto, il rapporto di Gloeden col liberty fu infatti vicino allo zero... 
 
Per concludere con le testimonianze, ecco quella di Caroline Atwater Mason che vide la casa nel 1913, un attimo prima che la Grande Guerra ponesse fine alla fase più felice della vita di Gloeden (e rubasse la vita a molti dei suoi modelli): 
La prima volta che visitammo San Domenico facemmo una scoperta che ci spinse a cambiare strada. Quasi di fronte all'albergo, notammo un'entrata che si apriva in un alto muro sommerso dall'edera: anch'essa era coperta d'edera e decorata dalla rosea cascata di fiori di un mandorlo. 

Un'insegna indicava che eravamo libere di entrare, e, alquanto timide, ci facemmo avanti finendo per ritrovarci in un giardinetto tappezzato di violette e circondato lungo il muro interno da gabbie piene d'uccelli. 

Di fronte a noi la facciata d'una casetta, tinteggiata di color crema, era quasi nascosta da una sontuosa bougainvillea, i cui ramoscelli cremisi ondeggiavano nel vento oltre la porta aperta verso la quale ci volgemmo. 

Sulla soglia di questa romantica dimora fummo ricevute dal proprietario, il barone von Gloeden, con le  cui inimitabili foto avevamo già dimestichezza. (Caroline Atwater Mason, p. 201).

---***---

* L'esterno della casa 
Quanto segue è quanto mi è stato possibile recuperare, dal punto di vista fotografico. 
 
Mappa di Taormina (dalla guida Baedeker - Sud Italia) del 1912, con indicato l'isolato della casa di Gloeden.  
Cortesia Malcom Gain, Parigi.
 .
La casa di Gloeden nel 1900 circa.
La casa confinante con quella di Gloeden nel 1900 circa.
La casa di Gloeden e quella vicina nel 1900 circa. Mio montaggio delle foto precedenti.
Lo stesso fotomontaggio, un po' colorizzato da me :-)
.
.La villa di Gloeden nel 1900 circa.
L'edificio che sorge oggi al suo posto, nel 2006, costruito anche su buona parte dello spazio un tempo occupato dal giardino.
L'isolato col giardino di Gloeden, visto dal San Domenico, in una cartolina prodotta da Gloeden (in basso a sinistra). Circa 1900.
L'isolato nel quale un tempo sorgevano la casa e il giardino di Gloeden, 2006.
La casa confinante con quella di Gloeden nel 1900 circa.
La casa confinante nel 2006 (le piante ne impediscono oggi una veduta d'insieme). Se ne nota il bovindo, pressoché immutato in oltre un secolo.
Dettaglio del bovindo della casa confinante con quella di Gloeden, nel 2006.
Il vicolo che delimitava il confine dell'isolato della casa di Gloeden. È possibile che la casa di Gloeden avesse un ingresso anche su questa stradina.
L'ingresso principale alla villa di Gloeden nel 1900/1910.
Lo spiazzo davanti all'ingresso alla villa di Gloeden nel 1904. Acquerello di Charles King Wood (1869-1942, collezione Malcom Gain, Parigi). Wood viveva a Taormina ed era amico di Gloeden.
L'ingresso alla villa di Gloeden nel 1904. Dettaglio dal dipinto precedente.  (collezione Malcom Gain, Parigi).
L'ingresso dell'edificio attuale, nel 2006.
Qui vediamo il lato sinistro dell'isolato (mettendosi di spalle al San Domenico). Sull'estrema destra si nota il giardino della casa di Gloeden verso il 1895-1890, sulla sinistra la chiesetta di san Michele e, dietro, il palazzo dei duchi di Santo Stefano. 
La foto è del maestro di Gloeden, Giuseppe Bruno.
La stessa chiesetta di san Michele nel 2006, da un punto di vista diverso (la precedente è scattata dai giardini dell'hotel, dove non potevo certo entrare). Si nota che la casa a sinistra conserva il corpo di fabbrica già esistente nel 1895, con variazioni minime, ma solo una piccola parte del giardino, oggi edificato.
Un'altra veduta della stessa area a inizio secolo scorso, in una cartolina colorata a mano. Sulla destra il giardino di Gloeden. A quanto pare sul tetto c'era un terrazzo, ma da questa foto lo si direbbe in uso alla casa dietro alla sua, che vi si affaccia direttamente con porte-finestre. Non mi risulta in effetti che sia stato usato nelle sue foto.
La strada vista dal lato opposto. Qui c'è l'edifico alla destra della casa di Gloeden, fotografato nell'Ottocento, prima della costruzione del bovindo. All'estrema sinistra si vedono le colonne da pergolato sul muro del giardino di Gloeden; il giardino di questo edificio ne mostra la funzione. 
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Il giardino 

Il giardino aveva un ruolo importante nella vita di Gloeden. Come scrisse Nina Matteucci nel 1910: 

Così egli vive: tra i fiori del suo giardino, che dà una vera idea di vegetazione tropicale, talmente le piante vi sono rigogliose, e intricate. (...)  
Nella mattina egli lavora, quando non è in giardino a curare i suoi fiori, che crescono rigogliosi, in omaggio al panorama bellissimo, coll'Etna da un lato. (Matteucci, p. 405).
Buona parte della proprietà di Gloeden era occupata dal giardino, gremito all'inverosimile di piante, alberi e fiori oltre che di "giare", i caratteristici, panciuti orci siciliani di grandi dimensioni.  
Senza essere enorme quanto la scelta accurata dei punti di vista lo fa sembrare nelle foto, era comunque un giardino di dimensioni degne di questo nome: fra casa e giardino la proprietà di Gloeden occupava infatti un  isolato. 

Il giardino aveva la forma di un rettangolo con il lato più lungo come base, al cui vertice superiore era disposta la casa.  
Il portone si apriva verso il San Domenico, la casa stava sul lato opposto; fra il portone e la casa stava il giardino.  
Il portone non era al centro del muro, bensì spostato verso il lato sinistro.  
Il muro di cinta era di un colore rosso mattone ed era sovrastato da colonne, che in passato erano servite a reggere un pergolato, probabilmente di viti, simile a quelli che mostrano nelle foto le case adiacenti. 

Il giardino era percorso da un sentiero, o forse due, parallelo/i al lato lungo del rettangolo. 

Parallelamente alla casa, un muretto ritagliava dal giardino un cortiletto "di servizio", al quale si accedeva da un varco il cui stipite sinistro era decorato (come anche il portale principale della proprietà) di palmette grecizzanti dipinte dallo stesso Gloeden. Dal varco si vedeva la porta (quella della dispensa o della cucina), grezza e scura, decorata con spighe chiare, e sulla sinistra una colonna bianca addossata al muro. 

La casa occupava in lunghezza uno spicchio del rettangolo, al primo piano, e vi si accedeva per mezzo di una scalinata che davanti alla porta aveva una ballatoio decorato da vasi, sulla quale si protendevano i fiori di un albero di Brugmansia, più nota col nome di Datura (sì, quello da cui trae la sostanza stupefacente!). 

Da qualche parte nel cortiletto era addossata a un muro (non saprei dire quale) una panchina decorata con palmette. Nel cortile riusciva a trovare posto anche una voliera, che per qualche tempo si intravede nelle foto di Gloeden. 
Il cortile stesso era lastricato con pietre quadrate e aveva una porta che dava sulla strada (anzi, sulla piazzetta) sul lato sinistro (tenendo le spalle al San Domenico). 

Ovviamente tutti questi luoghi ci sono noti solo perché appaiono nelle foto di Gloeden. Ma appunto per questo averli presenti è utile per riconoscere e attribuire correttamente le decine di foto di Gloeden ma anonime che continuano a spuntare sul mercato antiquario. Conoscendo bene i modelli e i luoghi è più facile distinguere le foto davvero di Gloeden da quelle che gli sono solo attribuite a capocchia (metà delle foto di "Gloeden" che circolano sul web non sono sue!). 

Ecco qualche esempio. 
 

Il vialetto del giardino di Gloeden accanto all'ingresso (che si trova a sinistra, dietro il ragazzo travestito da ragazza, ed è ricoperto dall'edera). La colonna sul muro offre un facile punto di orientamento.
Bambina con cesta, nello stesso vialetto del giardino di Gloeden.
Nudo maschile nel medesimo vialetto del giardino di Gloeden.
Un angolo del giardino di Gloeden, quasi una giungla, in una foto del 1907, colorita da qualche suo antico proprietario. Si notino le palmette dipinte sullo stipite del varco nel muro, sulla  destra: le ritroveremo nella prossima foto.
   
Il passaggio nel muro fra il giardino e il sentiero parallelo alla facciata della casa. Lo stipite sulla sinistra è decorato dalle palmette dipinte viste nella foto precedente, anche se questa è una seconda apertura nel muro di chiusura del senteiro. Sul fondo si intravede la porta decorata da spighe. In altre foto, sulla sinistra si intravede oltre il portale una colonna bianca addossata al muro.
Qui siamo già dentro sentiero che corre parallelo alla casa, e si vede sul fondo la porta decorata a spighe, oltre che lo stesso vaso della foto precedente.
   
La semicolonna che s'intravede nel cortiletto, quando ancora il muro non era ricoperto dai rampicanti. Nella foto successiva si noterà che le colonne erano due.
Ancora il cortile di servizio, guardando verso la parte sinistra: qui si vede il muro della casa fino al punto in cui incontra il muro di cinta.  
S'intravede ancora una colonna, collocata a sinistra della porta, ma i rampicanti hanno ricoperto il muro.
Usciamo dal cortiletto e torniamo sul sentiero. A sinistra una porticina immette in questo cortile. La presenza del glicine è testimoniata dagli ospiti della casa. Ipotizzo perciò che sia questo il "piccolo cortiletto di servizio su cui si apriva un ingresso secondario" (sul vicolo che corre a destra dell'isolato), di cui parla Falzone Barbarò (p. 23).
La panchina decorata da palmette stava in giardino, non so in quale punto. Forse alla base di una finestra al pianterreno?
La scala d'ingresso, in un'immagine già vista in precedenza. Alle spalle del modello s'intravedono, su due piani diversi, una porta e una porta-finestra che danno entrambe su uno stretto terrazzino.
Ancora il ballatoio.  
Alle spalle del modello, sulla destra, fa capolino la casa confinante, con un caratteristico sottotetto.
Il fondo del terrazzino d'ingresso. Dietro al modello, una voliera per uccelli. 
Sempre alle spalle del modello una veduta migliore della casa confinante..
Lo stesso ballatoio, sul quale nel frattempo si è affacciato coi suoi fiori un albero di Datura 
La voliera è sempre al suo posto.



Sempre sul ballatoio, ma stavolta con le spalle alla casa. Sullo sfondo, il campanile di San Domenico. Assieme al ragazzo, l'altro cane delle foto di Gloeden.
I



Il San Domenico di Gloeden 
Il convento dei domenicani di Taormina era disabitato, quando Gloeden si stabilì nel paese. 

Soppresso il convento con l'Unità d'Italia, nel 1866, il neonato Regno non riuscì infatti ad incamerare l'edificio a causa d'un presunto codicillo nell'atto di donazione dei beni del nobile Damiano Rosso, nel 1430. Il codicillo avrebbe stabilito che, se il convento fosse stato soppresso, l'immobile avrebbe dovuto tornare agli eredi del donatore, che risultarono essere i principi Rosso di Cerami [5]. 

Ne nacque una causa che durò per ben vent'anni, e che si sarebbe conclusa con la vittoria dei lontanissimi discendenti del donatore.  
Costoro avrebbero prima affittato (e infine venduto) lo stabile a investitori che intendevano farne un albergo. Fu così che nacque alla fine dell'Ottocento l'Hotel San Domenico, tuttora esistente, da sempre uno dei più prestigiosi di Taormina, anzi, inserito tra i venti alberghi più prestigiosi del mondo. 

A noi questa vicenda interessa in quanto, per tutto il periodo per cui si trascinò la causa legale e né i privati né lo Stato potevano metterci mano, il convento rimase in stato d'abbandono, e quindi fu facile per Wilhelm von Gloeden usarlo come location per le sue foto di nudo, fra il 1890 e il 1896. Oltre ad essere esteticamente splendido, l'edificio gli era anche assai comodo, dato che si trovava esattamente... in faccia a casa sua. 

In occasione di un mio viaggio in Sicilia per una serie di conferenze per l'Arcigay, sono riuscito, grazie alla cortesia del personale dell'albergo, a scattare alcune foto al chiostro maggiore.  
Oggi il chiostro è completamente ristrutturato, con grande eleganza ma anche rispetto delle linee originali. Nel terreno (un tempo spoglio) della corte sono addirittura cresciuti alberi, fra cui palme imponenti, ormai secolari... 
Tuttavia, a parte questi dettagli, vi si riconosce perfettamente lo stesso ambiente usato da Gloeden, con quelle stesse colonne e con quello stesso pozzo che appaiono nelle sue foto. 

Nelle foto di Gloeden si riconosce anche il secondo chiostro, più piccolo, nel quale le colonne sono più basse e poggiano sulla base creata da un muretto che corre tutto attorno. Non ho però potuto accedere  a questo secondo ambiente. 

Le immagini che ho scattato al San Domenico, che è un monumento d'arte interessante in sé e per sé, sono online qui. 

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Innesti storici. 
Una volta che ho potuto confrontare le foto che avevo scattato a Taormina con quelle dei libri che avevo lasciato a casa, m'è venuto il desiderio di vedere quanto fosse possibile sovrapporle. Non ho quindi resistito alla tentazione di praticare l'antica arte dell'innesto, incastrando alcuni scatti di Gloeden nelle mie foto dell'ambiente in cui erano nati oltre un secolo fa. 

Le mie foto sono state scattate di fretta (avevo solo un paio di minuti a disposizione, per non disturbare i clienti dell'albergo e non violarne la privacy), e quindi nessuno scatto mio combacia esattamente con nessuno scatto di Gloeden (del resto le sue foto non le avevo sottomano). Tuttavia anche se ho dovuto stiracchiare un po' le immagini per farle combaciare, credo che  anche così il risultato, per quanto non perfetto, sia intrigante. Lo considero l'equivalente fotografico dell'"archeologia sperimentale", che punta a rendere l'idea di come potesse apparire un contesto o un oggetto ai nostri avi che lo crearono, senza però pretendere di ri-crearlo, perché la storia quando muore, muore per sempre. 
A voi il giudizio [6]. 
 

Autoritratto di Gloeden
Il pozzo del san Domenico nel 2006
Autoritratto di Gloeden nel 1899.
Il pozzo del san Domenico nel 2006.
"Herr Gloeden torna all'Hotel San Domenico per una foto ricordo".  
Montaggio delle due foto precedenti.
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Von Gloeden, Attorno al pozzo del S. Domenico. Ca. 1900.
Il pozzo del san Domenico nel 2006.
"Fantasmi". 
Montaggio delle due foto precedenti.
Von Gloeden, S. Domenico nel 1890.
S. Domenico nel 2006.
"Ricordando il futuro". 
Montaggio delle due foto precedenti.
Von Gloeden, Nudo nel chiostro del san Domenico, ca 1900.
Dettaglio del chiostro del san Domenico nel 2006.
"Intrusione dal passato".  
Montaggio delle due foto precedenti.
Von Gloeden, Nudo nel chiostro del san Domenico, datato 1902.
Dettaglio del chiostro del san Domenico nel 2006.
"Intrusione dal passato".  
Montaggio delle due foto precedenti.
Von Gloeden, Due nudi nel chiostro del san Domenico, ca. 1900.
Dettaglio del chiostro del san Domenico nel 2006.
"Angolo di collisione". 
Montaggio delle due foto precedenti.
Von Gloeden, Due nudi nel chiostro del san Domenico, ca. 1900.
Dettaglio del chiostro del san Domenico nel 2006.
"Sicut umbra homo fugit". 
Montaggio delle due foto precedenti.
 
P.S. Un mio amico, dopo aver visto questi "innesti", ed avere avuto un termine di paragone con le colonne, ha sentenziato: "Se non altro adesso sappiamo che i modelli di Gloeden erano nanetti di un metro e sessanta". 

Ora, a parte il fatto che non è che io svetti molto più in alto, spesso si dimentica che la denutrizione ha fatto sì che gli italiani siano rimasti bassi di statura fino al dopoguerra. 

Quando si dice che i poveri di Taormina nel 1890 erano disperatamente poveri (e perché mai, se no, dieci milioni di italiani avevano iniziato ad emigrare oltreoceano, in quel periodo?), non si sta giocando con le parole: mancava loro letteralmente di che mangiare. 

Il che spiega perché i ricchi turisti omosessuali siano stati accolti con tanto tolleranza a Taormina: se portavano di che mangiare ai più affamati, sia pure in cambio di qualche servizio un po' speciale, erano stra-benvenuti...

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La tomba di Gloeden. Requiescat in pace. 
Wilhelm von Gloeden è stato sepolto nella parte acattolica del cimitero di Taormina, dove c'è tuttora chi si occupa della sua tomba, che appare ben tenuta, nonostante i taorminesi non si curino affatto delle potenzialità turistiche del "turismo della memoria". Ma questa è già un'altra storia. 
 

L'ingresso alla sezione acattolica del cimitero di Taormina.
La tomba di Wilhelm von Gloeden vista dal lato dell'ingresso. Foto scattata nel gennaio 2006.
La tomba di Wilhelm von Gloeden nel gennaio 2006.
La tomba di Gloeden.


La tomba di Gloeden vista dal cimitero cattolico adiacente.
L'autoritratto di Gloeden che appare sulla sua tomba.


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Bibliografia 
(per tornare al punto che si stava leggendo, fare clic su "indietro") 

Opere a stampa citate nel testo: 

Documenti online citati nel testo:  Torna ad inizio pagina 
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 [Fare clic qui per l'indice delle pagine su Gloeden e Plueschow] 
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L'autore ringrazia fin d'ora chi vorrà aiutarlo a trovare immagini e ulteriori dati su persone, luoghi e fatti descritti in questa scheda biografica, e chi gli segnalerà eventuali errori contenuti in questa pagina.

Note 

[1] Avviso: le foto di cui appaiono le miniature in questa pagina le ho caricate non nel mio sito, bensì (salvo un paio di eccezioni) su WikiCommons e su Flickr: quindi se fate clic sulla miniatura per vedere la foto, uscite dal mio sito.  
Per tornare a questa pagina dovete perciò fare clic su "torna indietro" sul vostro browser (mamma, vuol dire che è quella freccia lì che sta nell'angolo in alto a sinistra...). 

[2] Per comodità ho citato i libri che ho usato come fonti elencandoli una volta soltanto in fondo allo scritto, e citandoli poi di volta in volta col solo cognome dell'autore e il numero di pagina. L'ho fatto per evitare una tempesta di note, che online per forza di cose non avrebbero potuto essere "a piè di pagina", e che avrebbero disturbato la lettura. 

[3] La legge italiana sulla diffamazione, contrariamente a quanto previsto in altri Paesi (specificamente quelli anglosassoni -- si pensi solo al caso di Oscar Wilde, la cui rovina iniziò appunto con una causa per diffamazione che gli si ritorse contro), e contrariamente a quanto credono molte persone, punisce le affermazioni diffamanti in quanto tali, indipendentemente dal fatto che esse siano vere o false.  
Se io dico che tizio è un ladro, non importa che poi io sia in grado di dimostrare, prove alla mano, che lo è: il giudice che deve decidere su un'eventuale denuncia per diffamazione deve soltanto giudicare se la definizione di "ladro" (o "omosessuale") sia tale da compromettere la "fama" della persona presa a bersaglio. 

Tuttavia per la stessa legge la persona che si ritiene diffamata e che vuole dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio l'assoluta falsità delle affermazioni, può concedere al querelato "ampia facoltà di prova", con un gesto in un certo senso di pubblica sfida a provare, se ci riesce, quel che afferma. 

Ovviamente chi sa che la "diffamazione" dice il vero si guarderà bene dal concedere tale facoltà, come infatti saggiamente fece Gloeden. 

[3bis] La leggenda del Crupi "maestro" di Gloeden nasce a Taormina da una lettura tendenziosa, basata su un campanilismo non sempre disinteressato, che spaccia Crupi come il "vero" artista, gloria locale misconosciuta, mentre Gloeden sarebbe stato solo un furastieru che ne usurpò la fama grazie alla facile pruriginosità della sua arte.  

Questa lettura non corrisponde alla realtà: Crupi fu anch'egli artista, ma di orizzonte locale, mentre la cultura artistica da cui partì Gloeden fu di respiro internazionale. E si vede. 
Tale limite, riscontrabile anche in D'Agata e Galifi-Crupi, come in migliaia d'altri ottimi fotografi che agirono in ambito locale in Italia fra Otto e Novecento, spiega da solo il "vantaggio competitivo" di cui godette Gloeden rispetto ai suoi concorrenti indigeni. 

Su una cosa però i denigratori-di-Gloeden / panegiristi-di-Crupi hanno ragione: è stato il nudo a far conoscere Gloeden ieri, e a farlo ricordare oggi. Senza di esso, oggi il suo nome avrebbe lo stesso destino di quello di un, che so, Giuseppe Incorpora, bravo paesaggista siciliano di successo, ma noto ormai solo a collezionisti ed antiquari.  
E sfido chiunque a citarmi un solo nome di un fotografo paesaggista del XIX secolo la cui opera abbia conosciuto la pubblicazione di una ventina di monografie negli ultimi trent'anni. 

Ma anche parlando di nudo le cose non sono così semplici: come avrebbe scoperto a sue spese Gaetano D'Agata, non basta tirare giù le mutande ai ragazzotti indigeni per diventare un artista del nudo (al massimo si diventa uno strazzamutànni, secondo una gustosa definzione locale). 
Se Gloeden, in quanto paesaggista, fu solo un esponente fra i tanti d'una scuola (che la si chiami "pittorialismo fotografico", "scuola di Taormina" o altrimenti, poco importa) che sarebbe ingiusto fingere non sia mai esistita, quando se ne parla in quanto fotografo di nudo allora è lui la "scuola".  

E' lui il creatore d'un mondo fantastico di sua totale creazione, che ci affascina per gli stessi motivi per ci affascinano il mondo di Harry Potter o di Topolino: fantasia, coerenza interna, inventività, credibilità apparente...  
Crupi e D'Agata guardavano i modelli di Gloeden lorocompaesani e ci vedevano solo adolescenti inseguiti dalla miseria e dalla fame al punto da abbassarsi a far marchette con Gloeden e i suoi compari, e non a caso nelle loro foto anche noi vediamo (solo) la stessa cosa. 
Gloeden invece ci vedeva (voleva vederci, per autoassolversi!) i discendenti dei pastori di Teocrito e Virgilio di cui aveva studiato a scuola, capaci delle più nobili forme di "amore greco" da lui (guarda caso!) praticato. E riesce a farci vedere tutto questo, in massimo spregio della realtà storica ed umana, ma con una coerenza e una capacità creative uniche. Essendo un artista, è riuscito a creare una favola che è risultata credibile non solo per se stesso, ma anche per noi, e a un secolo di distanza. 
Ma da che mondo è mondo, nessun artista ha mai raccontato la realtà: un vero artista, la realtà la inventa. E riesce anche a farcela sembrave "vera". 

Qui è dove Gloeden ha successo, e i suoi concorrenti falliscono. 
Tanto è vero che, se non fosse per il fatto che ci servono a interrogarci su Gloeden, oggi nessuno farebbe piùi nomi di Crupi, Galifi, o D'Agata: ottimi fotografi paesaggisti, premiati per il loro talento con il successo commerciale delle loro cartoline, (vendute in centinaia di migliaia di pezzi, per decenni) e però ricordati oggi al di fuori di Taormina in primis per il loro rapporto diretto o indiretto con Gloeden.  
La riprova di questa mia affermazione sta nel fatto che la Taormina d'anteguerra si fregiò di almeno un altro buon fotografo, oltre a quelli appena citati e a Buciunì: Castorina. Il quale però non incrociò mai, neppure indirettamente, la strada di Gloeden, e infatti non a caso al di fuori dell'ambito locale e degli storici è ignoto ai più.  

[4] Una libraia di Taormina che tiene in vetrina libri su/di Gloeden mi  ha spiegato che sono numerosi i turisti, specie stranieri, che si rivolgono a lei per chiederle dove si trovi la casa di Gloeden. 

[5] Preferisco questa versione della vicenda (che leggo in: Roccuzzo, p. 109) a quella, poco credibile, su cui ricama Gaetano Saglimbeni, pp. 123-126.  
Qui si sostiene che il testamento del nobile proprietario che aveva trasformato il palazzo di famiglia in convento, per passarvi il resto dei suoi giorni, prevedeva sì una donazione all'Ordine domenicano di altri beni, ma non faceva menzione dell'immobile, che quindi per tale dimenticanza sarebbe sempre appartenuto ai suoi ignari eredi.  
Questa versione è assurda: per il Diritto romano, base di quello italiano, venti anni di uso esclusivo e non contestato di un bene costituiscono titolo di proprietà (usucapione), e qui l'Ordine aveva usato il bene per secoli, non per semplici decenni! 

La presenza di versioni discordanti sull'accaduto, come pure la circostanza che la famiglia Rosso di Cerami ignorasse completamente di possedere tale diritto, mi fanno pensare che la pergamena "svelata" dall'ultimo fratacchione che abitò il convento fosse in realtà un falso da lui confezionato per vendicarsi dallo Stato senzadio che lo stava sfrattando. 
Il dubbio ha comunque oggi unicamente interesse come curiosità storica: il diritto di usucapione è infatti valido anche per quanto riguarda tutti i successivi proprietari. 

[6] Nota bene: tutte queste immagini o sono di pubblico dominio, oppure (le mie foto) sono liberamente riproducibili citando il nome dell'autore sotto licenza Creative Commons 2.5 "attribution share alike" 
Di alcune immagini è disponibile anche l'alta definizione (il che vuol dire che possono essere anche stampate tipograficamente senza diventare minuscole, ma pure che pesano fino a 1,5 megabytes l'una).  
Ripeto: io non sono un grafic-artist, e questo per me è solo un modo per avere un'idea di come potesse apparire ciò che vedevano gli occhi di Gloeden. 
Ma se un vero grafico vuole fare dei veri fotomontaggi, usando livelli e trasparenze e scontorni a regola d'arte, il materiale da cui partire per farli gliel ho messo a disposizione qui sotto.  
(Occhio però al fatto che la licenza "Creative commons" è "virale": cioè se usate le mie foto per lavori "derivati", potete farlo, anche per usi commerciali, tuttavia nel farlo la mia licenza "Creative commons" si trasferirà anche al vostro lavoro derivato, che sarà quindi liberamente riproducibile a sua volta, alle stesse condizioni a cui è disponibile il mio... e così via).

[6] Questo ritratto è stato identificato per la prima volta come quello di Plüschow nel 1997, nel catalogo antiquario n. 5 di Serge Planteux al numero 193, e da allora accettato come tale. 
Tuttavia, il Metropolitan Museum di New York ha pubblicato sul suo sito una foto del medesimo soggetto mentre suona il mandolino che sul retro riporta una dedica che lo identifica come "Mico Lo Giudice-Berbiredolu, il mago del mandolino". 
Mario Bolognari, autore di I ragazzi di von Gloeden. Poetiche omosessuali e rappresentazioni dell'erotismo siciliano tra Ottocento e Novecento (Reggio Calabria, 2102) lo ha identificato in Domenico (detto "Mico") Lo Giudice (1871-1942), soprannominato "Barbareddu" o "Barbireddu" ("Barbiredolu" è visibilmente una cattiva lettura di "du" come: "olu"), soprannome che i suoi attuali discendenti a Taormina hanno ereditato. Si tratta pertanto d'un personaggio reale, e l'identificazione di questa foto come un suo ritratto ha le maggiori probabilità d'essere quella giusta, dato che è improbabile che la foto d'un personaggio celebre sia spacciata per quella d'un personaggio non conosciuto, mentre il contrario è più facile. 
Questo personaggio appare anche nell'immagine storica pubblicata sul sito dell'Hotel Schuler di Taormina, qui.

Testo inedito. Ripubblicazione consentita solo previo permesso dell'autore: scrivere per accordi.
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